29.12.2015
Enzo Bianchi, il priore di Bose si racconta: “Tutti i governi sono
inginocchiati al mercato”
"L'atteggiamento oscillante della politica italiana è una
manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come
esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del
Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità
in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica
umana". (Foto dall'archivio della comunità di Bose)
di Silvia Truzzi – 24 dicembre
2015 - Il Fatto Quotidiano
La strada sembra fatta apposta
per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di
nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite
chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A
parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto.
L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e
di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo
punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla
radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti,
fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.
Enzo Bianchi ha una faccia
conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la
mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che
qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù
Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di
Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio
papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan,
lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su
qualche soldo. Mia madre soffriva di una malattia al cuore, che si
sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per
operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena
otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa
e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre,
così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di
anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse
‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi
‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte,
portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è
andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche:
vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine
di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per
la vita monastica che iniziai a Bose”.
Com’è successo?
Ero impegnato in politica:
fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti.
Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all’abbé
Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le
case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un
insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della
carità, ma soprattutto maestri. Se c’è qualcuno degno di una cattedra sono i
poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s’ignorano. Vedere la capacità
di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente
cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento
legata all’azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.
Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.
E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso
dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la
condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo
perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico –
cattolici, valdesi, battisti, ortodossi – che si riuniva nel mio alloggio:
tutte queste circostanze insieme e l’apertura ecumenica del Concilio vaticano
II, mi fecero maturare l’idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.
Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all’ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all’ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.
Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c’era l’acqua
corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una
domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di
meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone
sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel
‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni
anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare
l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo
sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici
che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di
diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle
istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva:
‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.
Qui cosa producete?
Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.
Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.
Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila
all’anno, più o meno. C’è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per
parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche
quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio
perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più
zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli
extracomunitari e adesso – da circa cinque anni – si sono aggiunte povere
famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea.
Da settembre abbiamo quattro migranti dall’Africa. Gli abbiamo dato una casa e
li stiamo aiutando a imparare l’italiano: ci sembra giusto condividere con
loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?
“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai
nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li
accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero:
mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che
le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo
sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare
con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente
stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.
Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.
Ma è esagerata, esasperata dagli
imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura,
dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di
noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta – ingiusta
perché contro gli innocenti – ad altra violenza.
L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda
un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua
abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.
La paura va presa sul serio: nei
paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna
anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura,
non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il
giustificare sempre – a qualunque costo – chi si difende, a prescindere dalle
situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west
porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così
cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono
prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre
la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di
sicurezza e non hanno nulla da temere.
Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?
Una vera politica dovrebbe
prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre
frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna
mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi
sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a
livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la
voce, continua tutto come adesso.
La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato.
Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non
c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale,
necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i
tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà
e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante
della fraternità – tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a
una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo – allora anche la libertà e
l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere,
di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è
un duro mestiere.
È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata
completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di
abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo,
senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno
sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità
diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un
individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto
della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la
miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.
Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la
grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha
ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi
mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei
beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono
sorde.
Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche
– sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche – la giustizia sociale
era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di
affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la
distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non
c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia.
Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da
solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo
ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave
che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la
Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non
hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.
Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le
manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma
crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre
responsabilità.
Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel
Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair – che non è proprio un giusto –
fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici
monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a
parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.
Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per
riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti
noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di
tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che
ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone
stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno
facendo la guerra per procura.
Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla
fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza…
Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!
La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando
l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui
tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del
denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno
dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.
Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione
delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato
più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la
giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito
all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.