domenica 18 marzo 2018

NUOVA BIBLIOTECA: PER IL POPOLO DI SCARSA MEMORIA

di Giuseppe Marazzini
18.03.2018

La congrega dei cappellini bianchi pro “Amo Legnano”, di infausta esperienza politica (per intenderci, quelli che il “Cadorna lo si fa come lo diciamo noi punto e basta”), è al contrattacco. Con lo stesso sarcasmo di allora, si sono messi in moto per ostacolare la costruzione della nuova biblioteca nel denominato “parco Falcone-Borsellino”. Ma la vera ragione è quella che viene sventolata, cioè la difesa del suolo? Oppure stanno cavalcando l’argomento per revanche, dopo aver perso il sindaco? Sappiamo tutti che la suddetta area non è un parco, anche se questa definizione fa più “figo”, ma un giardino pubblico, giuridicamente definita “area pubblica attrezzata a verde”, area che deve comunque essere salvaguardata. 

Se per necessità pubblica si utilizzasse una minima percentuale di quel terreno (il 3-4% e non di più dei 50 mila metri quadrati totali dell’area), per realizzare la biblioteca della città, io non vedo nessun “crimine” ambientale e nessuna distruzione del verde a scapito dei bambini. Viceversa è mia opinione che sarebbe sì un “crimine” ambientale costruire la pista per la corsa dei cavalli sull’isola dietro al castello visconteo. Tornando alla biblioteca, prima che le ruspe si mettano in azione ci sono diversi passaggi che l’amministrazione deve compiere: oltre al bando di realizzazione, bisogna pensare al progetto preliminare e al progetto esecutivo. In questi passaggi si aprono spazi di partecipazione concreta, dove i cittadini, in particolare i fruitori, devono poter dire la loro su come verrà realizzata la “casa della cultura”. Dev’essere irrinunciabile la partecipazione alla discussione progettuale. 

Ci sono comunque alternative all’utilizzo di una modesta porzione di quell’area pubblica? Certo, ci potrebbero essere, ma a due condizioni. 

La prima: che la nuova biblioteca sia pronta nel più breve tempo possibile, da troppo la si aspetta. Fratus, che durante la campagna elettorale ha sparato diverse soluzioni senza fare i conti con l’oste, l’ha promessa entro la fine del suo mandato: mettiamolo alla prova. Centinaio ci ha provato, prima con il pastrocchio della ex fonderie Tosi - esperienza finita molto male - poi con il sogno della biblioteca nella ex manifattura di Legnano, ed infine ripiegando sull’ex tribunale. In 5 anni non ha risolto nulla. 

La seconda: che la biblioteca non sia un deposito di libri, ciò significa che la struttura deve rispettare i canoni di una biblioteca moderna, spaziosa e confortevole in prospettiva anche di un maggior numero di fruitori e con una localizzazione in cui essi possano trarre il maggior beneficio intellettuale anche studiando all’aperto, divenendo così a pieno titolo un luogo di incontro al centro della città. 

Penso che, se si vogliono rispettare queste due condizioni, l’alternativa dell’ex tribunale non sia fattibile. Ricordo che la superficie pubblica prevista nelle ex fonderie Tosi doveva essere di circa 3 mila metri quadrati; nell’ex tribunale sarebbe la metà, con l’aggiunta di costi energetici elevati. Paradossalmente, il comitato promotore “biblioteca sì sprechi no” è costituito da consiglieri comunali rappresentanti forze politiche che fino a pochi mesi fa governavano la città, PD ed Insieme per Legnano, quelli insomma che la biblioteca non l’hanno saputa fare e che ora si ergono a strenui difensori di quei 2.000 metri quadrati dell’area verde. 

Per carità, liberi di farlo, ma presentarsi quali difensori del suolo e dell’ambiente quando questo ruolo non lo si è mai esercitato fattivamente, è politicamente strumentale e speculativo, ed ancor più grave è chiedere una firma ai cittadini senza dar loro una completa informazione. Inoltre quando si trattò di difendere 280 mila metri quadrati di suolo agricolo per impedire l’insediamento Ikea, per mesi e mesi quelle stesse forze politiche si schierarono contro chi il suolo lo ha difeso veramente. Furono anche i fautori della prima edizione del “Rugby Sound Festival” sull’isolina dietro al castello, nonostante le numerose proteste ambientaliste avanzate dagli “Amici dell’Olona” e da altre associazioni. 

Non mi dilungo oltre, lascio alla pazienza dei lettori la consultazione di alcuni articoli allegati, che la raccontano bene sul modo di agire di questi gruppi politici.


martedì 6 marzo 2018

UN DOCUMENTARIO DA PROIETTARE ANCHE A LEGNANO.

Giuseppe Marazzini
06.03.2018


















La mimosa proibita
di Gianni Bortolini – Huffington Post

Può sembrare incredibile, ma c'è stato un tempo, nella storia recente di questo paese, in cui distribuire la mimosa davanti ai luoghi di lavoro era considerato reato. C'è stato un tempo in cui delle donne hanno pagato col carcere questo gesto "sovversivo". Donne come Anna e Angela, che l'8 marzo del 1955 furono arrestate davanti ai cancelli della Ducati di Bologna proprio per aver regalato la mimosa alle operaie.

Come spiega Eloisa Betti, una delle realizzatrici del documentario "Paura non abbiamo" che raccoglie le testimonianze delle protagoniste di quel difficile periodo: "L' arresto fu determinato dal fatto che la distribuzione di mimosa dietro offerta libera, all'epoca veniva considerata una questua abusiva". In poche parole: era vietato mendicare in luogo pubblico senza avere il permesso delle autorità.

Ovviamente, le motivazioni dell'arresto erano ben più concrete di quelle prese a pretesto dalle forze dell'ordine. La Ducati all'epoca aveva dichiarato oltre 960 licenziamenti ed erano in atto lotte molto dure per difendere i posti di lavoro. Diffondere la mimosa davanti ai cancelli significava esprimere solidarietà alle lavoratrici in lotta, significava sfidare il potere costituito e le autorità.

Le parole di Anna Zucchini, operaia e attivista sindacale rievocano con precisione quei momenti: "Ci portarono in carcere affiancate da poliziotti e carabinieri. Entrammo a San Giovanni in Monte verso le due pomeridiane, dove ci accolse una suora. Nel braccio femminile erano le suore che fungevano da guardie carcerarie. E fu così che, invece di festeggiare l'8 marzo, ci cacciarono in galera".

All'arresto seguì un processo che fece scalpore. Quando le imputate entrarono in aula scoppiò un applauso fragoroso. Queste ragazze giovani, in alcuni casi poco più che bambine, vennero accolte dal pubblico come delle eroine, tanto che i carabinieri minacciarono di sgomberare l'aula se si fosse ripetuto un tale atto.

Nonostante la solidarietà di una parte importante della cittadinanza, dei lavoratori della Ducati licenziati per rappresaglia, e delle donne dell'Udi, il processo si concluse con una condanna. Anna Zucchini, Renata Simoni, Angela Lodi, Francesca Zanardi, Sara Lipparini furono condannate a un mese di reclusione e a 55mila lire di ammenda.

Un giornale dell'epoca vicino al movimento operaio commentava così la sentenza: "Afferma la Costituzione al suo art.21 che tutti hanno diritto a manifestare il proprio pensiero. Eppure questo articolo della legge suprema dello Stato ancora troppe volte non viene applicato e ad esso si sostituiscono gli articolo dei vecchi codici fascisti: vi è in ciò materia di meditazione e di lotta per ogni democratico perché la Costituzione sia sempre e ovunque legge operante".

"Paura non abbiamo" è anche un'occasione per ripercorre un periodo della nostra storia troppo spesso rimosso e dimenticato. Un periodo in cui le libertà democratiche e i diritti costituzionali raramente varcavano i cancelli delle fabbriche ed entravano nei luoghi di lavoro.

Infatti, tra il 1948 e il 1950 più di 60 lavoratori trovarono la morte negli scontri con le forze dell'ordine. La FIAT, e con essa importanti aziende bolognesi come la Ducati, la Weber, le Officine Minganti, crearono al proprio interno dei corpi di vigilanza privati col compito di intimidire e sorvegliare i militanti della Cgil e non solo. Si organizzarono dei veri e propri "reparti confino" allo scopo di isolare gli elementi sgraditi.

Dal 1949 al 1966, oltre ai licenziamenti per rappresaglia, si schedarono del tutto illegalmente più di 200.000 persone che vennero poi discriminate e fatte oggetto di ogni tipo di vessazione.

Alla luce di questi dati e di queste storie toccanti, non possono sorprendere le reazioni con cui la Fiom e la Cgil hanno accolto la cancellazione dell'articolo 18 e il Jobs Act. Al contrario, sorprende la superficialità con cui giovani rottamatori rampanti senza storia né memoria hanno messo mano ad articoli di legge che sono costati lotte decennali, sacrifici, carcere, e persino morti.

Le storie di Anna, Angela e di tutte coloro che parteciparono alle lotte della mimosa, trovano però un finale inaspettato che ci riconcilia con una memoria troppe volte tradita. Il carcere di San Giovanni in Monte, il luogo dove quelle giovani ragazze furono richiuse e dove migliaia di bolognesi negli anni '50 vennero imprigionati per aver preso parte a manifestazioni sindacali, è oggi la sede del Dipartimento di Storia dell'Università di Bologna. In San Giovanni in Monte oggi si tengono corsi che spiegano ai ragazzi, agli studenti, chi erano Anna, Angela, Renata Francesca e Sara.

Dove c'erano celle e refettori oggi ci sono sale studio e biblioteche. In definitiva, se è vero che la storia non è magistra di niente, è altrettanto vero che, coloro che la storia la fanno, a volte si prendono delle belle rivincite.