giovedì 31 dicembre 2009

ACCAM, il “brusadanè” (bruciasoldi)

di Giuseppe Marazzini
24.12.2009


In attesa della risposta scritta alla mia interrogazione, presentata in Consiglio Comunale il 30.11.2009, con la quale chiedevo quanto verrebbe a costare (pro quota) al comune di Legnano l’adeguamento dell’inceneritore ACCAM, ritengo opportuno tornare sull’argomento dopo quanto emerso dall’ultima seduta dei 27 comuni facenti parte della società ACCAM, tenutasi a Gallarate a porte chiuse una decina di giorni fa.

Il presidente della società ed alcuni rappresentanti dei comuni hanno dichiarato che la situazione tecnico-gestionale della società ACCAM è quasi allo sfacelo: 900 mila euro di perdita nel 2009 e una perdita, se non si aumentano le tariffe (dal 3% al 30% in base al tipo di rifiuto trattato), di 3 milioni di euro per il 2010.

Verranno anche a mancare i “CIP6”, il contributo elargito dallo Stato per bruciare rifiuti (loro le chiamano energie rinnovabili e “assimilate”): qualcosa come 5 milioni di euro (che i cittadini pagano tramite le loro bollette). Se i comuni non accettano l’aumento delle tariffe e non scuciono i soldi per l’adeguamento dell’impianto si chiude: questo l’allarme lanciato dal presidente della società.

Come volevasi dimostrare senza tariffe più esose e senza “CIP6” questi impianti non riescono a stare in piedi, quindi ben venga la fine di questi catorci. Dopo che per anni hanno riempito i polmoni di migliaia di cittadini di polveri sottili e di diossina, lesinando sulla migliore tecnologia disponibile, ora i signori dell’ACCAM pretendono di “bruciare” altri 40 milioni di euro per continuare ad inquinare.

Il 13 febbraio prossimo i comuni si incontreranno di nuovo per decidere cosa fare. Mi auguro che molti di loro chiedano la fuori uscita dall’incenerimento per entrare in una fase che preveda lo smaltimento dei rifiuti con tecnologie dolci e una politica amministrativa tesa a promuovere la diminuzione dei rifiuti alla fonte.

Il fuoco sacro dell’ACCAM. La giunta di Legnano da che parte sta?

di Giuseppe Marazzini
08.12.2009


L’inceneritore ACCAM di Busto Arsizio è un impianto vetusto, talmente vetusto che considerarlo un catorcio è usare un eufemismo. Per i danni che ha già causato alla salute umana - in particolare ai borsanesi - e all’ambiente, andrebbe fermato subito.

Stando a precisi impegni presi dalle istituzioni locali questo inceneritore dovrebbe smettere di funzionare prima del 2019, entro tale data, infatti, gli impianti dovrebbero risultare smantellati, l’area insediativa bonificata e portata allo stato originario.

Ma lo smaltimento dei rifiuti è sinonimo di grandi affari. I Comuni dell’ex consorzio ACCAM (Legnano inclusa), per la verità non proprio tutti, stanno per tradire le aspettative di migliaia di cittadini perché vogliono puntare sul potenziamento dell’inceneritore, con un costo preventivato di quasi 40 milioni di euro. Soldi spesi anche per la salute della gente “le emissioni saranno inferiori al consentito” dichiarano furbescamente gli amministratori della Società. (ISDE – comunicato stampa).

Nelle previsioni il nuovo impianto dovrebbe bruciare 400 tonnellate di rifiuti al giorno (ora sono circa 200 le tonnellate bruciate) con una quantità gigantesca di materiali tossici di residuo tra cui, 2.000 tonnellate all’anno di ferro, 6.000 tonnellate all’anno di ceneri da collocare in discariche speciali e una quantità enorme di scorie tossiche che potrebbe arrivare fino a 25mila tonnellate all’anno, quest’ultime si ipotizza che vengano immesse nella lavorazione del cemento.

I dirigenti dell’ACCAM, con il consenso di buona parte dei politici e di qualche ecologista bustocco favorevole all’incenerimento, sostengono che il “gioco vale la candela” perché una parte dell’investimento verrà ripagato fornendo alla comunità un servizio di teleriscaldamento e producendo energia elettrica che verrà rimborsata usufruendo dei cosiddetti certificati verdi (si tratta di milioni di euro che tutti i cittadini pagheranno tramite le bollette dell’energia elettrica).

Si tace invece sul fatto che aumenteranno le tariffe e che per alimentare l’inceneritore bisognerà produrre più rifiuti a scapito della raccolta differenziata. Perché i Comuni puntano all’incenerimento dei rifiuti anziché incentivarne una raccolta differenziata che preveda una riciclo spinto?

La risposta è molto semplice. Gli investimenti per organizzare una raccolta differenziata spinta hanno un ritorno economico inferiore a quello dell’incenerimento dei rifiuti in quanto non sono supportati da incentivi statali del tipo, appunto, dei certificati verdi.

È palese che la maggior parte dei nostri amministratori locali stia affrontando la questione dello smaltimento dei rifiuti sotto il profilo esclusivamente del profitto economico -quanto possiamo guadagnare con l’incenerimento dei rifiuti?- e non sotto il profilo della tutela della salute dei cittadini. Se così non fosse non si comprende perché non accettano di valutare procedimenti di raccolta e di riciclo più rispettosi della salubrità ambientale.

È giunto il momento di cambiare strada perché viviamo in una delle aree in cui la concentrazione di polveri sottili è spaventosa e di per sé già causa di migliaia di morti ogni anno. Come è noto i dati scientifici dimostrano che usare i rifiuti solidi urbani come combustibile è pura follia perché dai camini escono schifezze che fanno male alla salute. E’ il momento di dire basta a scelte nefaste.

Ai cittadini legnanesi va detto che è inutile che facciano finta di niente perché i fumi dell’inceneritore non colpiscono solo gli abitanti di Borsano ma arrivano anche qui da noi e il nuovo impianto di trattamento dell’umido (compostaggio), previsto in via Novara, farà nascere “l’asse dei rifiuti” dell’alto milanese.

A dimostrazione di quanto l’interesse economico per il trattamento dei rifiuti sia superiore alla tutela della salute dei cittadini lo si evince anche dal fatto che nessuno dei nostri amministratori ha sollevato obiezioni di merito a proposito del nuovo ospedale di Legnano, che è costruito sotto il camino dell’inceneritore ACCAM e vicinissimo al previsto impianto di compostaggio. Guardare la mappa qui sotto.
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Cl e Pd: chiamala Megacoop

di Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano.
31 dicembre 2009


Niguarda per i milanesi vuol dire ospedale. L’Azienda ospedaliera Niguarda - Ca’ Granda è uno dei più grandi centri clinici del nord.
Ed è, naturalmente, controllato dagli uomini di Cl. Sono legati al gruppo ecclesiale di cui fa parte anche il presidente della Regione Roberto Formigoni, primari, medici, dirigenti.
Il direttore generale è Pasquale Cannatelli, che in ufficio tiene ben in vista una sua foto con don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione.
Cannatelli guida la sua struttura in perfetta sintonia con la grande orchestra di Cl che si è impossessata della sanità lombarda. Lo si vede nelle scelte grandi e in quelle piccole.
Non c’è assunzione, gara, appalto che sfugga alla regola: gli amici innanzitutto. Niguarda entro il 2013 sarà interamente ristrutturato, diventerà un nuovo grande polo ospedaliero, con un megainvestimento da 1 milione di euro.
Dopo gare e procedure contestate perfino dagli ispettori del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, un primo appalto da 262 milioni di euro è stato vinto da un’associazione temporanea di imprese guidata da Cmb, potente cooperativa di Carpi. Stupiti? Ma no, è da tempo che si è creato un asse di ferro tra Cl e coop rosse, garantito da un leader dell’ex Pci gran frequentatore del ciellino Meeting di Rimini: quel Pier Luigi Bersani oggi arrivato al vertice del Pd. Gli amici sono
amici. Così se i lavori per il nuovo ospedale di Legnano sono affidati al colosso Techint (area Cl), a Niguarda la spuntano le coop rosse.
Grazie a un’ideona: il project financing. Ovvero: solo una parte dei soldi è pubblica, il resto lo mette il privato, cioè la Cmb, che poi recupera gestendo per 27anni alcuni servizi dentro l’ospedale. Ma siccome a pagare la sanità è sempre la mano pubblica, questo project financing assomiglia tanto a un trucco in cui, nella sostanza, i privati guadagnano e il pubblico paga.
Ma Dio, si sa, sta nei particolari. Dunque anche i dettagli non sfuggono alle ferree regole del potere ciellino. Così ora anche un piccolo appalto – 280 mila euro per tre anni per la fornitura dei flaconi per le trasfusioni – è finito davanti al Consiglio di Stato.
Niguarda ha infatti stilato un bando in cui stabilisce che i flaconi non devono più essere, come fino a oggi, di vetro, ma di plastica.
Così si sa già chi vincerà la gara: l’unica azienda oggi in grado di fornire i prodotti così come sono stati delineati nel bando, ovvero la multinazionale tedesca BBraun.
Al massimo potrà forse cercare di contrastarla un’altra multinazionale, la Fresenius.
Sono insorte, con ricorso prima al Tar e poi al Consiglio di Stato, le aziende del vetro. Finora le aziende farmaceutiche producevano le soluzioni per le trasfusioni che poi imbottigliavano nei flaconi di vetro. Con la plastica non è possibile: chi imbottiglia deve avere dentro il proprio ciclo produttivo anche l’impianto di fabbricazione dei contenitori.
Un investimento di almeno 20 milioni di euro difficilmente ammortizzabile da tante aziende piccole o medie che operano nel solo mercato italiano. La plastica è più costosa del vetro.
È più inquinante. Obbliga a costi aggiuntivi di smaltimento valutabili attorno agli 80 mila euro l’anno. Ma niente da fare: al Niguarda i manager di Cl hanno scelto la plastica.

Legnano. Immagini di lotte operaie negli anni 1980/90


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venerdì 11 dicembre 2009

Non dimenticare Piazza Fontana

di Giuseppe Marazzini
11.12.2009


Una strage senza colpevoli: a quarant’anni da quel 12 dicembre 1969, quando una mano fascista fece esplodere una bomba all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura in pieno centro a Milano, provocando la morte di 17 persone e 88 feriti. (filmato telegiornale dell’epoca)

Si volle spargere del sangue innocente per colpire operai e studenti in lotta per migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita e per il rispetto della loro dignità. Allora come oggi c’è chi li vorrebbe silenziosi ed ubbidienti.

La strage vide lo Stato, attraverso i propri servizi segreti, coinvolto nel depistare le indagini, forse complice della strage stessa e propugnatore di quella “strategia della tensione” che cominciò a mietere vittime subito qualche giorno dopo lo scoppio della bomba di Piazza Fontana.

La prima vittima di tale strategia fu il povero Giuseppe Pinelli accusato ingiustamente di essere l’esecutore della strage.