mercoledì 14 dicembre 2016

SI COMINCIA CON IL PGT, POI CI SARÀ VIALE CADORNA, IL CIMITERO, ECC. ECC.

di Giuseppe Marazzini
14.12.2016 

Da qualche giorno gira per la città un foglio formato tabloid dal titolo PGT 2.0, prodotto e realizzato dall’amministrazione comunale. L’intento dichiarato della Giunta è quello di avvicinare i cittadini ad un tema piuttosto ostico, quello dell’urbanistica … Ma nel frattempo, ed è questo l’intento vero della Giunta, con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato amministrativo, ne approfitta per farsi propaganda.

Il tabloid si presenta bene, ma pecca nei contenuti. Si da spazio alle intenzioni, ma non si dice della scarsa efficacia del PGT (Piano di Governo del Territorio) nel governare e tutelare il territorio. Come si potranno governare i processi di cambiamento del territorio, se la parola d’ordine è flessibilità? (leggasi, l’operatore più forte imporrà i suoi progetti).

Come si potranno governare i processi, se i procedimenti di negoziazione (leggasi, contrattazione tra l’amministrazione pubblica e gli operatori del settore) avverranno nella massima riservatezza nell’ufficio dell’assessorato e in assenza di una trasparenza vera? Il minimo che si può dire del PGT, è che è uno strumento benevolo con gli operatori danarosi e molto meno con gli operatori “poveri”.

Intanto è sicuro che questa informazione-propaganda, verrà pagata con parecchi migliaia di euro da tutti i cittadini legnanesi.

 
Comune di Legnano pieghevole PGT 2.0-2016 from GMarazzini
Per leggere in pdf il pieghevole clicca QUI


Per par condicio diamo spazio a una “propaganda” che riteniamo più adatta e utile a spiegare  e far capire ai comuni mortali, cosa sta dietro  concretamente ai PGT. 


ARCIPELAGOMILANO - L’URBANISTICA È MORTA MA NEANCHE NOI STIAMO TROPPO BENE
Prendere atto dei cambiamenti, cambiare cultura, che fatica
by Pietro Cafiero  6 dicembre 2016

DISCLAIMER! Questo articolo è volutamente provocatorio e tratta un argomento sacro come l’urbanistica in modo un po’ ironico, sopra le righe e consapevolmente semplicistico. Quindi lo leggete a vostro rischio e pericolo.
Sono passati alcuni anni dal momento in cui ho smesso di insegnare in università. Guarda caso proprio nel Laboratorio di Urbanistica e nel corso di Progettazione Architettonica e Urbana. E quindi credo di poter trattare in modo distaccato un argomento che mi preme assai, su cui ho ragionato a lungo e a più riprese. Allo stesso tempo penso che non mi si possa accusare di parlare da “uomo ferito”. Non sto scrivendo di urbanistica spinto da un potenziale rancore nei confronti di una vecchia fiamma che mi ha lasciato. Si astengano per favore gli accademici e i soloni. Questo è un articolo per un settimanale culturale ma generalista e non un saggio da pubblicare su Territorio. Tuttavia spero che quanto dirò meriti un dibattito. O di un massacro. Vedete voi …

In verità ho un po’ di timore ad affrontare l’argomento, sapendo che il mio maestro mi leggerà, magari con un misto di fastidio e – chissà? - disapprovazione, spero che mi perdoni.

Va bene, basta premesse. Non serve prendere altro tempo. Lo dico. Aboliamo l’Urbanistica?
Di più. La disciplina che è nata per rispondere ai problemi delle città, nella migliore delle ipotesi non li ha risolti, ma il sospetto che li abbia acuiti è invero molto forte. Spesso mi sono chiesto cosa sarebbe successo alle nostre città se non ci fossimo inventati la pianificazione urbanistica. Certo, dal punto di vista storico si parla di urbanistica romana e medievale. Ma in realtà si tratta più che altro di regole insediative e fondative che sottendono il disegno delle città, la matrice della forma urbis. Nulla a che vedere con la disciplina pseudoscientifica che si origina a partire dalla rivoluzione industriale, ma che inizia a fare veri danni a partire forse dal secondo dopoguerra, quando viene appunto applicata come se fosse scienza, con arroganza e presunzione, con la pretesa dell’infallibilità.

Ecco, questo è l’inizio della fine. Penso a Milano, città paradigmatica, urbanisticamente parlando. Dal Piano Beruto (un piano di sviluppo edilizio) al vigente PGT (un non piano) sono passati più di 130 anni. Ma Milano, pardon Mediolanum, esiste da qualche annetto in più. Dal VI secolo a.C., per l’esattezza. Facendo due conti Milano ha più di 2600 anni, e per 2470 è cresciuta senza piani. Al massimo con qualche regola e un bel giro di mura a indirizzarne e contenerne lo sviluppo. Nel senso che se ne costruivano di nuove all’occorrenza. Di mura e di regole.

Io sono convinto che le città contengano in nuce sin dal loro primo vagito (l’atto fondativo) una capacità di svilupparsi in modo coerente e appropriato attraverso quelli che Aldo Rossi chiamava i fatti urbani. Un po’ come un essere vivente che ha scritto nel proprio DNA quanto crescerà e come. E quindi le città come gli individui vanno curati solo quando si ammalano. Invece l’urbanistica moderna tende a curare a prescindere, in una sorta di iterazione preventiva (i piani che si rinnovano). A me però hanno insegnato che non prendi l’aspirina se non hai la febbre. E invece noi facciamo i piani non per curare le città, ma per indirizzarle secondo i nostri desiderata. Peccando di ubris. Che è pure l’anagramma di urbis. Curioso, no? Provate a pensarci. Ai tempi dei Romani l’atto fondativo della città consisteva nel tracciare due strade perpendicolari tra di loro, il cardo e il decumano, su cui poi si allineavano tutte le altre, creando una griglia regolare di isolati modellata sulla fattispecie del castrum. Molte altre culture, più antiche e più recenti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno operato nello stesso modo o in modi analoghi.

Sempre e dovunque tale imprinting originario non si è più perduto e da questa continuità o inerzia storica che pervade lo sviluppo delle città possiamo ricavare un assunto operativo, ciò che io chiamo l’immanenza dei tracciati. Nel divenire urbano le strade sono molto più “resistenti” nel tempo rispetto agli edifici (da noi basta pensare a città come Torino, Brescia o Verona, che presentano una morfologia a scacchiera ancora perfettamente leggibile pur non conservando più gli edifici di epoca romana; altrove gli esempi sono infiniti, dalla Cina all’America Latina, dal Giappone al Canada, e così via). Ma anche tracciati più recenti “lasciano il segno”: la forma a “S” di via Dezza a Milano deriva dai raggi di curvatura delle rotaie che la percorrevano. Analoga “lunga durata” ha la suddivisione della proprietà del suolo registrata dai catasti, che impongono i loro segni sull’organizzazione del tessuto urbano e rurale conservandoli anche a distanza di secoli. Per non parlare dei segni che rimangono nel tessuto edilizio ben oltre la durata degli edifici stessi (Piazza dell’Anfiteatro a Lucca, il quartiere di Santa Croce a Firenze).

Che cosa possono i nostri piani oggettivi e le nostre scientificissime regole di fronte a un potere così forte e pervasivo? Lo chiederei a Giancarlo De Carlo che nel suo libro Gli spiriti dell’architettura (Roma, Editori Riuniti, 1992), racconta un episodio che spiega perfettamente quanto noi tecnici siamo spesse volte di un’arroganza micidiale. In un progetto per l’Ina Casa a Sesto San Giovanni, un giovane De Carlo aveva messo tutto se stesso (e questo non è mai un male), ma anche la sua sicumera: “Il progetto si articolava su un cardine che mi pareva sicuro: fornire a ogni alloggio le migliori condizioni obbiettive di abitabilità e assicurare a ogni nucleo famigliare, malgrado il forte addensamento, la più grande possibilità di isolamento. Per questo le stanze di soggiorno e da letto e le logge erano state portate verso il sole e il verde, i servizi e i ballatoi a nord sulla strada. I ballatoi stessi, perché fosse sgradevole sostarvi e perché il passaggio della gente non disturbasse gli alloggi, erano stati ridotti a nastri distaccati dalla facciata.”.

Dopo aver passato alcune ore la domenica pomeriggio in un bar di fronte alle palazzine che aveva progettato, si trovava ad ammettere con spietata onestà intellettuale: “Ho passato qualche ora di domenica, in primavera, a osservare da un caffè di fronte il moto degli abitanti della mia casa; ho subito la violenza che mettevano nell’aggredirla per farla diventare la loro casa; ho verificato l’inesattezza dei miei calcoli. Le logge al sole erano colme di panni stesi e la gente era a nord, tutta sui ballatoi. Davanti a ogni porta, con sedie a sdraio e sgabelli, per partecipare da attori e spettatori al teatro di loro stessi e della strada. […] Ho capito allora quanto poco sicuro era stato il mio cardine, malgrado l’apparenza razionale. Conta l’orientamento e conta il verde e la luce e potersi isolare, ma più di tutto conta vedersi, parlare, stare insieme. Più di tutto conta comunicare”.

La lezione che viene da De Carlo è chiara e ineludibile: l’architetto/l’urbanista non può arrogarsi il diritto di decidere cosa è giusto per chi abiterà/vivrà le proprie case/città. Anche perché quasi mai ci riesce e raramente è efficace. Meglio che si limiti a progettare, prefigurando al massimo delle sue capacità le trasformazioni spaziali che andrà a realizzare. A prescindere dalla scala. Cesare Macchi Cassia nel suo fondamentale libro (Il grande progetto urbano, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1991) ci dice in estrema sintesi che lo sviluppo delle città si può governare attraverso i Grandi Progetti Urbani, che non si curano di retini e di indici fondiari e si inverano secondo tensioni tecnico artistiche e necessità economiche. La Legge 12/2005 della Regione Lombardia lo certifica, introducendo il PGT al posto del PRG. Uno strumento strategico ed evoluto (l’urbanistica 2.0!), ma che in realtà in modo un po’ ipocrita sancisce per legge che la pubblica amministrazione è forte con i cittadini comuni e totalmente arrendevole alle iniziative dei grandi gruppi immobiliari.

Perché se ci pensate bene le trasformazioni che interessano i normali cittadini sono previste e disciplinate in modo puntuale dal Piano delle Regole. Le grandi trasformazioni, quelle gestite dai grandi potentati del Real Estate, quelle dove girano i big money, sono contenute nel Documento di Piano, che per definizione non ha carattere prescrittivo, ma solo strategico e di indirizzo. Come a dire: liberi tutti! Pardon, non proprio tutti … I comuni cittadini sono pregati di accomodarsi in terza classe, nel vagone delle regole. Ci sono degli aspetti curiosi nel PGT, quasi freudiani. Il nome, tanto per cominciare. Piano di Governo del Territorio. Non della Città. Del Territorio. Se io penso a una città la associo alle case, agli edifici, insomma ai volumi. Alla tridimensionalità. Se io penso al territorio, da buon milanese, penso alla Pianura Padana, magari un po’ brumosa, solo qualche pioppo qua e là. Sicuramente piatta. Ecco la prima differenza. Ma continuiamo. Vi ricordate gli indici del vecchio PRG? Erano espressi in metri cubi su metri quadri. Ovvero erano espressi in termini volumetrici. Quindi dotati di tre dimensioni. È risaputo che gli indici del PGT sono espressi in metri quadri su metri quadri. Un concetto un po’ più difficile da comprendere, per i non addetti ai lavori e che comporta certamente anche dei vantaggi. Ma guarda un po’, siamo di nuovo nel campo (di cui la Pianura Padana è assai ricca) delle due dimensioni. Superfici, roba piatta, senza spessore.

Come se non bastasse il PGT, anche l’ultimo Regolamento Edilizio del Comune di Milano si traveste da Piano Urbanistico, malgrado la legge 12/2005 (sì proprio la legge del PGT!) lo vieti espressamente.
Ora che abbiamo rotto il ghiaccio possiamo dirci un’altra cosa. Sapete a cosa servono i piani urbanistici? Oltre a tutto quello che è riportato nelle leggi e nei manuali, ovvio. Servono a togliere il peso della responsabilità ai funzionari pubblici. Che in assenza di un pezzo di carta, di un piano appunto, dovrebbero assumersi il rischio di fare scelte, di dire sì o no, motivando il tutto. E invece si nascondono dietro il PGT. Perché le scelte che questi signori fanno sono basate sui concetti contenuti nelle pieghe dei documenti e dei regolamenti. Questo quando ti va bene. Perché in molti casi la risposta è: “beh, il tecnico è lei, firma lei il progetto, quindi lo presenti e poi vedremo noi se approvarlo”. Lei, noi. Fantastico, no? Tutto ciò non vale nel caso del G.R.E.C.O. (Gran Real Estate Capo Operativo), che il progetto lo impone e lo fa direttamente inserire nel piano.

Oh, intendiamoci, le regole servono. Io sono di indole anarchica, ma riconosco l’utilità del concetto di legge. Basta non abusarne, come di tutto. Da un lato, d’istinto, asseconderei la mia indole e vedrei con favore un approccio liberista alle vicende urbane. Liberi tutti, sì, non solo i potenti. Credo però che la natura umana necessiti di qualche piccolo confine e piantare dei paletti ogni tanto produce effetti positivi. Lo diceva pure Bram Stoker.

Un buon Regolamento Edilizio, unito a quello di Igiene, sarebbe da solo sufficiente a gestire le trasformazioni puntuali, quelle derivanti dalle pratichette (CILA, SCIA). Mentre per le grandi trasformazioni (che poi sono nient’altro che Piani Attuativi) basterebbe avere nel pubblico un interlocutore forte e autorevole, capace di ottenere dai portatori sani di volumetrie e quattrini ricadute positive per la collettività. Ma le regole devono essere di tipo insediativo. Poche e chiare come lo zoning codes che vige a Manhattan e che ha contribuito a modellare lo skyline della città. Non con i retini, ma con semplici meccanismi. Non ti indico un’altezza massima, ma te la vincolo alla dimensione dell’isolato e a modalità di arretramento del fronte strada, per garantire una giusta illuminazione naturale. Se rispetti questi parametri il grattacielo lo fai alto quanto vuoi. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Appunto. Guardiamoci attorno. Noi cavilliamo di PGT e indice unico, mentre da lungo tempo Steven Holl con i suoi progetti urbani, un vero e proprio Laboratorio di Urbanistica in divenire, ragiona e ci mostra come l’architettura possa governare le trasformazioni anche alla scala territoriale. Vanke Center e Linked Hybrid lo urlano a squarciagola. Ma il suo ragionamento parte da lontano, da Edge of a City, pubblicazione del 1996. Ha senso nel 2016 parlare di indici edificatori, in una città sostanzialmente satura? Proviamo ad accettare l’idea che la densificazione non sia un peccato mortale, soprattutto in caso di sostituzione edilizia, visto che può e deve produrre risparmio di suolo. Iniziamo a ragionare in termini spaziali e abbandoniamo la retorica bidimensionale della pianificazione (che già nel nome contiene l’idea di piano quindi piatto). Se proprio dobbiamo continuare a chiamarla urbanistica almeno decliniamola in 3D, anzi in 4D visto che il tempo è una dimensione fondamentale nella storia della città.

Negli ultimi anni Milano ha trasformato e sta trasformando circa 4 milioni di metri quadrati, in più di 10 grandi aree di intervento. Il risultato complessivo lo vedremo tra qualche tempo. Ma l’impatto che questi cambiamenti stanno avendo sulla forma della città è notevole e significativo. E, confesso, non mi dispiace. Casualmente, ma anche no, sono tutte iniziative di grandi gruppi immobiliari, che hanno imposto la loro idea, con la forza dei quattrini, a prescindere da quello che diceva il piano vigente. Come se il piano non ci fosse o non avesse la forza di influenzare o indirizzare quelle scelte.
Eh già …

Pietro Cafiero 
 
 

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