14.12.2016
Da qualche giorno
gira per la città un foglio formato tabloid dal titolo PGT 2.0, prodotto e
realizzato dall’amministrazione comunale. L’intento dichiarato della Giunta è quello
di avvicinare i cittadini ad un tema piuttosto ostico, quello dell’urbanistica
… Ma nel frattempo, ed è questo l’intento vero della Giunta, con l’avvicinarsi
della scadenza del suo mandato amministrativo, ne approfitta per farsi propaganda.
Il tabloid si
presenta bene, ma pecca nei contenuti. Si da spazio alle intenzioni, ma non si
dice della scarsa efficacia del PGT (Piano di Governo del Territorio) nel
governare e tutelare il territorio. Come si potranno governare i processi di
cambiamento del territorio, se la parola d’ordine è flessibilità? (leggasi,
l’operatore più forte imporrà i suoi progetti).
Come si potranno
governare i processi, se i procedimenti di negoziazione (leggasi, contrattazione
tra l’amministrazione pubblica e gli operatori del settore) avverranno nella
massima riservatezza nell’ufficio dell’assessorato e in assenza di una
trasparenza vera? Il minimo che si può dire del PGT, è che è uno strumento
benevolo con gli operatori danarosi e molto meno con gli operatori “poveri”.
Intanto è sicuro che
questa informazione-propaganda, verrà pagata con parecchi migliaia di euro da
tutti i cittadini legnanesi.
Comune di Legnano pieghevole PGT 2.0-2016 from GMarazzini
Per leggere in pdf il pieghevole clicca QUI
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Per par condicio
diamo spazio a una “propaganda” che riteniamo più adatta e utile a spiegare e far capire ai comuni mortali, cosa sta
dietro concretamente ai PGT.
ARCIPELAGOMILANO - L’URBANISTICA
È MORTA MA NEANCHE NOI STIAMO TROPPO BENE
Prendere atto dei cambiamenti,
cambiare cultura, che fatica
by Pietro Cafiero 6 dicembre 2016
DISCLAIMER! Questo articolo è
volutamente provocatorio e tratta un argomento sacro come l’urbanistica in modo
un po’ ironico, sopra le righe e consapevolmente semplicistico. Quindi lo
leggete a vostro rischio e pericolo.
Sono passati alcuni anni dal
momento in cui ho smesso di insegnare in università. Guarda caso proprio nel
Laboratorio di Urbanistica e nel corso di Progettazione Architettonica e
Urbana. E quindi credo di poter trattare in modo distaccato un argomento che mi
preme assai, su cui ho ragionato a lungo e a più riprese. Allo stesso tempo
penso che non mi si possa accusare di parlare da “uomo ferito”. Non sto
scrivendo di urbanistica spinto da un potenziale rancore nei confronti di una
vecchia fiamma che mi ha lasciato. Si astengano per favore gli accademici e i
soloni. Questo è un articolo per un settimanale culturale ma generalista e non
un saggio da pubblicare su Territorio. Tuttavia spero che quanto dirò
meriti un dibattito. O di un massacro. Vedete voi …
In verità ho un po’ di timore ad affrontare
l’argomento, sapendo che il mio maestro mi leggerà, magari con un misto di
fastidio e – chissà? - disapprovazione, spero che mi perdoni.
Va bene, basta premesse. Non serve prendere altro
tempo. Lo dico. Aboliamo l’Urbanistica?
Di più. La disciplina che è nata per rispondere ai
problemi delle città, nella migliore delle ipotesi non li ha risolti, ma il
sospetto che li abbia acuiti è invero molto forte. Spesso mi sono chiesto cosa
sarebbe successo alle nostre città se non ci fossimo inventati la
pianificazione urbanistica. Certo, dal punto di vista storico si parla di
urbanistica romana e medievale. Ma in realtà si tratta più che altro di regole
insediative e fondative che sottendono il disegno delle città, la matrice della
forma urbis. Nulla a che vedere con la disciplina pseudoscientifica che
si origina a partire dalla rivoluzione industriale, ma che inizia a fare veri
danni a partire forse dal secondo dopoguerra, quando viene appunto applicata
come se fosse scienza, con arroganza e presunzione, con la pretesa
dell’infallibilità.
Ecco, questo è l’inizio della fine. Penso a Milano,
città paradigmatica, urbanisticamente parlando. Dal Piano Beruto (un piano di
sviluppo edilizio) al vigente PGT (un non piano) sono passati più di 130 anni.
Ma Milano, pardon Mediolanum, esiste da qualche annetto in più. Dal VI
secolo a.C., per l’esattezza. Facendo due conti Milano ha più di 2600 anni, e
per 2470 è cresciuta senza piani. Al massimo con qualche regola e un bel giro
di mura a indirizzarne e contenerne lo sviluppo. Nel senso che se ne
costruivano di nuove all’occorrenza. Di mura e di regole.
Io sono convinto che le città contengano in nuce
sin dal loro primo vagito (l’atto fondativo) una capacità di svilupparsi in
modo coerente e appropriato attraverso quelli che Aldo Rossi chiamava i fatti
urbani. Un po’ come un essere vivente che ha scritto nel proprio DNA quanto
crescerà e come. E quindi le città come gli individui vanno curati solo quando
si ammalano. Invece l’urbanistica moderna tende a curare a prescindere, in una
sorta di iterazione preventiva (i piani che si rinnovano). A me però hanno
insegnato che non prendi l’aspirina se non hai la febbre. E invece noi facciamo
i piani non per curare le città, ma per indirizzarle secondo i nostri
desiderata. Peccando di ubris. Che è pure l’anagramma di urbis.
Curioso, no? Provate a pensarci. Ai tempi dei Romani l’atto fondativo della
città consisteva nel tracciare due strade perpendicolari tra di loro, il cardo
e il decumano, su cui poi si allineavano tutte le altre, creando una griglia
regolare di isolati modellata sulla fattispecie del castrum. Molte altre
culture, più antiche e più recenti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno
operato nello stesso modo o in modi analoghi.
Sempre e dovunque tale imprinting originario
non si è più perduto e da questa continuità o inerzia storica che pervade lo
sviluppo delle città possiamo ricavare un assunto operativo, ciò che io chiamo
l’immanenza dei tracciati. Nel divenire urbano le strade sono molto più
“resistenti” nel tempo rispetto agli edifici (da noi basta pensare a città come
Torino, Brescia o Verona, che presentano una morfologia a scacchiera ancora
perfettamente leggibile pur non conservando più gli edifici di epoca romana;
altrove gli esempi sono infiniti, dalla Cina all’America Latina, dal Giappone
al Canada, e così via). Ma anche tracciati più recenti “lasciano il segno”: la
forma a “S” di via Dezza a Milano deriva dai raggi di curvatura delle rotaie
che la percorrevano. Analoga “lunga durata” ha la suddivisione della proprietà
del suolo registrata dai catasti, che impongono i loro segni
sull’organizzazione del tessuto urbano e rurale conservandoli anche a distanza
di secoli. Per non parlare dei segni che rimangono nel tessuto edilizio ben oltre
la durata degli edifici stessi (Piazza dell’Anfiteatro a Lucca, il quartiere di
Santa Croce a Firenze).
Che cosa possono i nostri piani oggettivi e le nostre
scientificissime regole di fronte a un potere così forte e pervasivo? Lo
chiederei a Giancarlo De Carlo che nel suo libro Gli spiriti
dell’architettura (Roma, Editori Riuniti, 1992), racconta un episodio che
spiega perfettamente quanto noi tecnici siamo spesse volte di un’arroganza
micidiale. In un progetto per l’Ina Casa a Sesto San Giovanni, un giovane De
Carlo aveva messo tutto se stesso (e questo non è mai un male), ma anche la sua
sicumera: “Il progetto si articolava su un cardine che mi pareva sicuro:
fornire a ogni alloggio le migliori condizioni obbiettive di abitabilità e
assicurare a ogni nucleo famigliare, malgrado il forte addensamento, la più
grande possibilità di isolamento. Per questo le stanze di soggiorno e da letto
e le logge erano state portate verso il sole e il verde, i servizi e i ballatoi
a nord sulla strada. I ballatoi stessi, perché fosse sgradevole sostarvi e
perché il passaggio della gente non disturbasse gli alloggi, erano stati
ridotti a nastri distaccati dalla facciata.”.
Dopo aver passato alcune ore la domenica pomeriggio in
un bar di fronte alle palazzine che aveva progettato, si trovava ad ammettere
con spietata onestà intellettuale: “Ho passato qualche ora di domenica, in
primavera, a osservare da un caffè di fronte il moto degli abitanti della mia
casa; ho subito la violenza che mettevano nell’aggredirla per farla diventare
la loro casa; ho verificato l’inesattezza dei miei calcoli. Le logge al sole
erano colme di panni stesi e la gente era a nord, tutta sui ballatoi. Davanti a
ogni porta, con sedie a sdraio e sgabelli, per partecipare da attori e
spettatori al teatro di loro stessi e della strada. […] Ho capito allora quanto
poco sicuro era stato il mio cardine, malgrado l’apparenza razionale. Conta
l’orientamento e conta il verde e la luce e potersi isolare, ma più di tutto
conta vedersi, parlare, stare insieme. Più di tutto conta comunicare”.
La lezione che viene da De Carlo è chiara e
ineludibile: l’architetto/l’urbanista non può arrogarsi il diritto di decidere
cosa è giusto per chi abiterà/vivrà le proprie case/città. Anche perché quasi
mai ci riesce e raramente è efficace. Meglio che si limiti a progettare,
prefigurando al massimo delle sue capacità le trasformazioni spaziali che andrà
a realizzare. A prescindere dalla scala. Cesare Macchi Cassia nel suo
fondamentale libro (Il grande progetto urbano, Roma, Nuova Italia
Scientifica, 1991) ci dice in estrema sintesi che lo sviluppo delle città si
può governare attraverso i Grandi Progetti Urbani, che non si curano di retini
e di indici fondiari e si inverano secondo tensioni tecnico artistiche e
necessità economiche. La Legge 12/2005 della Regione Lombardia lo certifica,
introducendo il PGT al posto del PRG. Uno strumento strategico ed evoluto
(l’urbanistica 2.0!), ma che in realtà in modo un po’ ipocrita sancisce per
legge che la pubblica amministrazione è forte con i cittadini comuni e
totalmente arrendevole alle iniziative dei grandi gruppi immobiliari.
Perché se ci pensate bene le trasformazioni che
interessano i normali cittadini sono previste e disciplinate in modo puntuale
dal Piano delle Regole. Le grandi trasformazioni, quelle gestite dai grandi
potentati del Real Estate, quelle dove girano i big money, sono
contenute nel Documento di Piano, che per definizione non ha carattere
prescrittivo, ma solo strategico e di indirizzo. Come a dire: liberi tutti! Pardon,
non proprio tutti … I comuni cittadini sono pregati di accomodarsi in terza classe,
nel vagone delle regole. Ci sono degli aspetti curiosi nel PGT, quasi
freudiani. Il nome, tanto per cominciare. Piano di Governo del Territorio. Non
della Città. Del Territorio. Se io penso a una città la associo alle case, agli
edifici, insomma ai volumi. Alla tridimensionalità. Se io penso al territorio,
da buon milanese, penso alla Pianura Padana, magari un po’ brumosa, solo
qualche pioppo qua e là. Sicuramente piatta. Ecco la prima differenza. Ma
continuiamo. Vi ricordate gli indici del vecchio PRG? Erano espressi in metri
cubi su metri quadri. Ovvero erano espressi in termini volumetrici. Quindi
dotati di tre dimensioni. È risaputo che gli indici del PGT sono espressi in
metri quadri su metri quadri. Un concetto un po’ più difficile da comprendere,
per i non addetti ai lavori e che comporta certamente anche dei vantaggi. Ma
guarda un po’, siamo di nuovo nel campo (di cui la Pianura Padana è assai
ricca) delle due dimensioni. Superfici, roba piatta, senza spessore.
Come se non bastasse il PGT, anche l’ultimo
Regolamento Edilizio del Comune di Milano si traveste da Piano Urbanistico,
malgrado la legge 12/2005 (sì proprio la legge del PGT!) lo vieti
espressamente.
Ora che abbiamo rotto il ghiaccio possiamo dirci
un’altra cosa. Sapete a cosa servono i piani urbanistici? Oltre a tutto quello
che è riportato nelle leggi e nei manuali, ovvio. Servono a togliere il peso
della responsabilità ai funzionari pubblici. Che in assenza di un pezzo di
carta, di un piano appunto, dovrebbero assumersi il rischio di fare scelte, di
dire sì o no, motivando il tutto. E invece si nascondono dietro il PGT. Perché
le scelte che questi signori fanno sono basate sui concetti contenuti nelle pieghe
dei documenti e dei regolamenti. Questo quando ti va bene. Perché in molti casi
la risposta è: “beh, il tecnico è lei, firma lei il progetto, quindi lo
presenti e poi vedremo noi se approvarlo”. Lei, noi. Fantastico, no? Tutto
ciò non vale nel caso del G.R.E.C.O. (Gran Real Estate Capo Operativo), che il
progetto lo impone e lo fa direttamente inserire nel piano.
Oh, intendiamoci, le regole servono. Io sono di indole
anarchica, ma riconosco l’utilità del concetto di legge. Basta non abusarne,
come di tutto. Da un lato, d’istinto, asseconderei la mia indole e vedrei con
favore un approccio liberista alle vicende urbane. Liberi tutti, sì, non solo i
potenti. Credo però che la natura umana necessiti di qualche piccolo confine e
piantare dei paletti ogni tanto produce effetti positivi. Lo diceva pure Bram
Stoker.
Un buon Regolamento Edilizio, unito a quello di
Igiene, sarebbe da solo sufficiente a gestire le trasformazioni puntuali,
quelle derivanti dalle pratichette (CILA, SCIA). Mentre per le grandi
trasformazioni (che poi sono nient’altro che Piani Attuativi) basterebbe avere
nel pubblico un interlocutore forte e autorevole, capace di ottenere dai
portatori sani di volumetrie e quattrini ricadute positive per la collettività.
Ma le regole devono essere di tipo insediativo. Poche e chiare come lo zoning
codes che vige a Manhattan e che ha contribuito a modellare lo skyline
della città. Non con i retini, ma con semplici meccanismi. Non ti indico
un’altezza massima, ma te la vincolo alla dimensione dell’isolato e a modalità
di arretramento del fronte strada, per garantire una giusta illuminazione
naturale. Se rispetti questi parametri il grattacielo lo fai alto quanto vuoi.
E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Appunto. Guardiamoci attorno. Noi cavilliamo di PGT e
indice unico, mentre da lungo tempo Steven Holl con i suoi progetti urbani, un
vero e proprio Laboratorio di Urbanistica in divenire, ragiona e ci mostra come
l’architettura possa governare le trasformazioni anche alla scala territoriale. Vanke Center e Linked Hybrid
lo urlano a squarciagola. Ma il suo ragionamento parte da lontano, da Edge
of a City, pubblicazione del 1996. Ha senso nel 2016 parlare di indici
edificatori, in una città sostanzialmente satura? Proviamo ad accettare l’idea
che la densificazione non sia un peccato mortale, soprattutto in caso di
sostituzione edilizia, visto che può e deve produrre risparmio di suolo.
Iniziamo a ragionare in termini spaziali e abbandoniamo la retorica
bidimensionale della pianificazione (che già nel nome contiene l’idea di piano
quindi piatto). Se proprio dobbiamo continuare a chiamarla urbanistica almeno
decliniamola in 3D, anzi in 4D visto che il tempo è una dimensione fondamentale
nella storia della città.
Negli ultimi anni Milano ha trasformato e sta
trasformando circa 4 milioni di metri quadrati, in più di 10 grandi aree di
intervento. Il risultato complessivo lo vedremo tra qualche tempo. Ma l’impatto
che questi cambiamenti stanno avendo sulla forma della città è notevole e
significativo. E, confesso, non mi dispiace. Casualmente, ma anche no, sono tutte iniziative di
grandi gruppi immobiliari, che hanno imposto la loro idea, con la forza dei
quattrini, a prescindere da quello che diceva il piano vigente. Come se il
piano non ci fosse o non avesse la forza di influenzare o indirizzare quelle
scelte.
Eh già …
Pietro Cafiero
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