Giuseppe Marazzini
29.07.2014
Riforme, Colombo:
“Napolitano con Renzi? Ama centralismo democratico”
L'ex pm di Mani pulite
sull'ostinazione e la fretta del governo nell'iter parlamentare:
"Approvate modifiche alla Carta e all'Italicum, basterà a un partito
essere votato da meno di 2 abitanti su 10 per decidere praticamente su tutto.
Il Colle? Il 'primato della politica' ogni tanto riaffiora"
di Silvia Truzzi | 29
luglio 2014
L’ostinazione con cui si vuole procedere – senza fare
prigionieri,
hic et nunc – sulle
riforme, desta molti sospetti.
Per l’intesa sulla quale si fondano, il famoso e ancor oggi ignoto
Patto del
Nazareno. Per l’inopportunità del momento, visto che a metter mano alla
Carta
è un
Parlamento delegittimato dalla sentenza della
Consulta che
in gennaio ha dichiarato incostituzionale il
Porcellum. E poi per i
contenuti rischiosi. Di tutto questo abbiamo parlato con
Gherardo Colombo,
ex pm di
Mani pulite, oggi presidente di
Garzanti e membro del
cda
Rai.
Dottor Colombo, perché questa fretta e perché questi toni
ultimativi secondo lei?
Non capisco la fretta e i toni ultimativi. Non li capisco perché si tratta di
modificare una parte molto rilevante dell’assetto costituzionale, che non
riguarda soltanto il modo per fare le leggi, ma coinvolge il sistema di
equilibrio dei poteri, cui tanto tempo ha dedicato chi ha scritto la
Costituzione quasi settant’anni fa. A mio parere per cambiare una parte così
importante della Costituzione occorrerebbe una riflessione ampia e profonda,
cui partecipino tutte le culture (non si può riservare il discorso alle sole
forze politiche, quando si tratta di intervenire sulla prima regola del nostro
stare insieme), in particolare quelle espressione di minoranze , che sono alla
fine le destinatarie della vera democrazia. Io vedo il rischio che il prodotto
di un percorso riformatore non sufficientemente approfondito possa intaccare il
primo pilastro della nostra legge fondamentale, quello del riconoscimento della
pari dignità di tutte le persone, che si attua appunto attraverso la
considerazione e la tutela delle minoranze. Non credo sia banale ricordare che
democrazia non significa strapotere della maggioranza ma regolamentazione del
potere di questa perché non vengano compromessi i diritti dei deboli e dei non
allineati.
l combinato disposto di Italicum più riforma del Senato
ha suscitato le critiche dei più autorevoli studiosi della Costituzione. Lei
cosa ne pensa?
Non posso che ripetere quel che è già stato detto tante volte. Una volta
attuati entrambi i cambiamenti basterà a una forza politica essere votata da
meno di due abitanti su dieci per avere il potere di legiferare, di eleggere il
presidente della Repubblica, di eleggere la maggioranza dei giudici
costituzionali, di scegliere tutti i componenti delle autorità indipendenti e
via dicendo. Se vuole facciamo un conto rapido. Il premio di maggioranza scatta
con il 37% dei voti. Però la percentuale si riferisce a chi abbia
effettivamente votato, non agli aventi diritto, e i primi, ora, non sono più
del 60% dei secondi. Infine, occorre considerare che gli aventi diritto al voto
sono soltanto i cittadini, mentre in Italia vivono stabilmente circa sette
milioni di “stranieri”.
Non le sembra paradossale che si tolga qualsiasi
bilanciamento al potere degli eletti da due persone scarse su dieci degli abitanti
di questo paese?
I sostenitori della riforma costituzionale però non rispondono mai nel merito.
Chi osa criticare il progetto viene additato come gufo, rosicone, addirittura
“allucinato”. Per non dire dei costituzionalisti liquidati come “professoroni”.
Credo che dia fastidio enorme la competenza, la conoscenza. Si sono trasformate
da valore a handicap. Guardi che non si tratta di una caratteristica esclusiva
della politica, succede un po’ da tutte le parti che alla competenza si
preferisca altro: la “famiglia”, l’amicizia, la fedeltà, la sudditanza, la
disponibilità. Poi, per salvarsi la faccia, si esalta la meritocrazia, che non
viene applicata da nessuna parte (e che è comunque una cosa diversa, e un po’
meno “democratica”, della competenza).
Anche il capo dello Stato è favorevole a un cammino
celere della legge.
Il Presidente se ne sarebbe andato un anno fa, se non lo avessero quasi
obbligato a rimanere perché non erano capaci di eleggere chi ne prendesse il
posto. Comunque bisogna capirlo. E’ nato nel 1925, tre anni dopo la marcia su
Roma. La cultura del tempo era quella che era, anche non volendo si era in
qualche misura contagiati dal credo assoluto verso la verticalità della
società. Una volta che l’Italia si è liberata del fascismo il presidente si è
trovato a condividere pensiero e opere di Stalin (se non ricordo male nel 1956
era dalla parte dei sovietici che avevano invaso l’Ungheria con i carri
armati). Ha poi fatto passi da gigante attraverso il suo “grave tormento
autocritico” (sono parole sue), bisogna dargliene atto e riconoscere il
risultato di sforzi davvero notevoli. Ma a me pare che la cultura del passato,
il metodo del centralismo democratico, la convinzione del “primato della
politica”, ogni tanto riaffiorino, come a me pare sia successo con la lettera
inviata al Consiglio superiore della magistratura a proposito delle questioni
che hanno investito la Procura della Repubblica di Milano e come mi pare sia
oggi, a proposito delle riforme costituzionali. Lo dico con rispetto per il percorso
di un uomo che credo abbia sempre agito pensando di essere nel giusto; ma certo
sarebbe un gran segno della coerenza del percorso compiuto se si preoccupasse
di ricordare alle Camere che sarebbe inopportuno usare tagliole o ghigliottine
in una materia così decisiva e delicata come una riforma costituzionale.
da Il Fatto Quotidiano del 29 luglio 2014