di Giuseppe Marazzini
14.05.2010
Del nuovo ospedale nel rione S. Paolo si è scritto e parlato moltissimo. Si può dire che agli occhi di quelli più attenti, favorevoli o contrari all’opera, nulla è sfuggito.
Del nuovo ospedale si è detto quasi tutto: quanti posti letto, quanto costa, l’impatto urbanistico e quello del traffico, le strade per arrivarci (che ancora non ci sono a pochi mesi della sua apertura).
Per i pubblici poteri, per l’azienda ospedaliera e per molti cittadini il nuovo ospedale è “merveilleux” e, in effetti, si presenta bene.
Quello di cui non si ha più memoria, e i poteri istituzionali giocano un ruolo fondamentale nel far dimenticare le questioni più spinose, è il contesto gestionale e sanitario in cui opererà il nuovo ospedale.
Per quanto concerne la gestione, basta riprendere in mano la convenzione di concessione del marzo 2005, in cui si può leggere che per 337 mesi - 28 anni - i privati che hanno contribuito con le proprie risorse economiche alla realizzazione del nuovo ospedale in project financing avranno in concessione la gestione dei servizi non sanitari, che non sono pochi. Si tratta dei servizi di lavanderia, guardaroba, ristorazione degenti e ristorazione dipendenti, manutenzione ordinaria degli impianti tecnologici, climatizzazione e gestione calore, gestione del verde, pulizie, smaltimento rifiuti e vigilanza. Ovviamente sono servizi che l’Azienda Ospedaliera dovrà pagare.
Il concessionario, inoltre, ha l’incarico di coordinare e di gestire contrattualmente l’attivazione delle utenze con l’azienda erogatrice di energia elettrica, con l’azienda erogatrice dell’acqua e con l’azienda erogatrice del gas-metano.
Tutte queste concessioni sono un’arma formidabile in mano al privato che potrà condizionare a suo piacere il mercato della salute.
A queste condizioni, quanto costerà un posto letto nel nuovo ospedale?
I dirigenti ospedalieri affermano che le attività sanitarie rimarranno nelle mani della gestione pubblica, sì ma fino a quando, dato che il privato non aspetterà 28 anni per invadere il campo.
Chi sono le imprese partecipi dell’operazione nuovo ospedale? Sono la Techint, il Consorzio Nazionale Servizi Soc. coop a.r.l., l’impresa edile Vinco Renzo, l’Italia servizi integrati soc. Consortile per Azioni, la CMB (cooperativa muratori e braccianti di Carpi) e la Aster SpA.
Queste aziende, di ispirazione sociale in apparenza contrastanti, vanno da imprese vicine alla Compagnia delle Opere alle coop “rosse”. In prima istanza esse si sono costituite in Associazione Temporanea di Imprese per poi diventare Genesi Uno SpA, la società che ha ottenuto la concessione sia per la costruzione del nuovo ospedale che per la gestione dei servizi sopra indicati.
Per quanto concerne, invece, il contesto sanitario riporto una ricerca che mette in luce come il privato ha messo le mani sulla sanità in Italia.
LE SETTE SORELLE DELLA SANITA' PUBBLICA
di Vittorio Bonfanti
06.02.2009
Banchieri e immobiliaristi, con forti interessi nell’editoria, sono i potenti del business delle cliniche.
Tra volti noti e nomi sconosciuti, ecco chi sono i padroni della salute
Alcuni sono giganti che hanno fatto la storia dell’economia italiana, come Carlo De Benedetti e Gianfelice Rocca. Altri sono nomi nuovi dell’Italia che conta, per esempio Giuseppe Rotelli e Giampaolo Angelucci. Altri ancora sono quasi sconosciuti al grande pubblico: Ettore Sansavini, Emmanuel Miraglia, Maria Luisa Garofalo. Le loro holding sono le sette sorelle della sanità privata, quelle che svettano per il numero di posti letto sparsi in cliniche, centri di riabilitazione, case di riposo. Posti letto per lo più accreditati, attraverso le Regioni, al Sistema sanitario nazionale, dunque a carico delle casse pubbliche in base a tariffe predeterminate. Nel corso dell’ultimo decennio, a forza di continue acquisizioni, le sette sorelle si sono assicurate le posizioni di punta in un business giudicato tra i più promettenti, causa invecchiamento della popolazione e sempre crescente domanda di salute. Il giro d’affari della sanità italiana nel 2007 è stato di oltre 130 miliardi di euro, investimenti esclusi, secondo l’Oasi, l’Osservatorio aziende sanitarie italiane del Cergas, il Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’Università Bocconi di Milano. È la somma di 102 miliardi di euro di spesa sanitaria pubblica e di 28 miliardi di spesa sanitaria privata. La prima è sborsata dallo Stato per mantenere le strutture pubbliche e rimborsare le prestazioni erogate dai privati accreditati; la seconda è la somma di tutto quello che i cittadini pagano di tasca propria al momento di fare una visita o un intervento in strutture pubbliche e private, per esempio i ticket. Il grosso dell’affare, come si vede, sta nella prima voce, quella dei 102 miliardi. Di questi, sempre nel 2007, agli operatori privati ne sono arrivati più di venti: 8,8 agli ospedali accreditati, 8,6 all’assistenza socio-sanitaria convenzionata (per esempio le case di riposo), 3,6 alla specialistica. Mentre la spesa ospedaliera è stabile, dal 2000 in poi le altre due voci hanno mostrato incrementi medi del 6% all’anno, una crescita determinata soprattutto dall’aumento dei bisogni di anziani e disabili.
Ci sono sorelle maggiori e sorelle minori. Prendiamo il famoso modello lombardo. Nella terra del governatore Roberto Formigoni, le Asl non producono alcun servizio, se non le funzioni base di tutela della salute pubblica e i controlli veterinari. Ospedali e altre strutture pubbliche agiscono in modo indipendente sul mercato, in concorrenza con i privati; il cittadino può scegliere liberamente, tanto a pagare l’intervento o il ricovero è sempre la Regione.
“In Lombardia il privato è fatto di grandi gruppi come la Cir di De Benedetti e la Techint di Rocca -spiega Elena Cantù, responsabile di Oasi- mentre nelle altre regioni gli operatori sono più piccoli. Non possono garantire un’assistenza completa, ma solo determinati servizi. Per questo il modello lombardo è difficilmente esportabile. Il Piemonte voleva adottarlo ma non ce l’ha fatta”. All’opposto del modello lombardo c’è il modello toscano, “con poco privato e molto pubblico, dove le Asl gestiscono strutture in proprio. Non sono scelte esclusivamente ideologiche, perché in una regione storicamente di centrodestra come il Veneto la presenza dei privati è ridotta e riconducibile per lo più a istituti religiosi”. Oltre alle Sette sorelle c’è la Grande madre, cioè la Chiesa. Del business della sanità privata rappresenta una fetta importante, ma difficile da quantificare. La proprietà delle strutture è frammentata tra fondazioni, ordini religiosi, diocesi, tutti enti che non sono tenuti a rendere pubblici i propri bilanci. Tra i più noti c’è il San Raffaele, guidato dal prete-manager Luigi Verzé. L’ospedale milanese, controllato dalla Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, dispone di più di mille posti letto accreditati con il sistema sanitario. Ogni anno, secondo i dati forniti della fondazione, conta 58.200 ricoveri, 25.700 interventi chirurgici, 57.900 accessi al pronto soccorso, oltre 7 milioni e 200mila tra prestazioni ambulatoriali ed esami di laboratorio.
Dio guarisce -questo significa Raffaele in ebraico-, la Regione paga.
Insieme ai banchieri e agli immobiliaristi, gli imprenditori della sanità privata sono tra i nuovi potenti d’Italia, e probabilmente i meno minacciati dalla crisi economica. Molti di loro hanno conquistato un peso rilevante nell’editoria e sono ben introdotti nel mondo politico. Con le controindicazioni che l’avere a che fare con soldi e uomini pubblici comporta, a partire dalle frequenti grane giudiziarie.
Giuseppe Rotelli, Papiniano spa. Rotelli, 68 anni, avvocato di Pavia, è il signore dei posti letto. Ne conta 3.956 concentrati in Lombardia (a parte una struttura a Bologna) e quasi tutti accreditati. Nella regione governata da Formigoni, fanno capo a lui l’8% dei posti letto e il 9,2% dei rimborsi. La società bolognese Papiniano spa, di cui è amministratore unico, controlla il Gruppo ospedialiero San Donato, 18 strutture tra cui la storica Madonnina di Milano e il Policlinico di San Donato. Giuseppe Rotelli è figlio di Luigi, chirurgo che tra gli anni Cinquanta e Sessanta fondò l’Istituto di cura città di Pavia e il Policlinico San Donato. Negli anni Settanta e Ottanta, Giuseppe lavorò al Piano ospedaliero e al Piano sanitario regionale della Lombardia. Nel 2000, con il gruppo San Donato acquisì in blocco le cinque strutture messe in vendita da Antonino Ligresti, fratello del costrutture Salvatore. Ligresti aveva deciso di abbandonare l’attività sanitaria in Italia e di riavviarla in Francia dopo che, nel 1997, dieci pazienti e un infermiere erano morti nell’incendio della camera iperbarica di un suo ospedale, l’Istituto ortopedico Galeazzi di Milano. Dal 2006, Rotelli controlla il 10% del gruppo Rcs, che pubblica il Corriere della Sera. Nel 2008, la Procura di Milano lo ha messo sotto inchiesta due volte, accusandolo di aver chiesto rimborsi “gonfiati” al Sistema sanitario nazionale. Nel 2007 il gruppo ha fatturato circa 725 milioni di euro.
Emmanuel Miraglia, Giomi spa. Miraglia, 69 anni, a lungo presidente dell’Associazione italiana ospedalità privata, guida un gruppo familiare con sede a Roma che conta oltre 1.600 posti letto, di cui più di 1.500 accreditati (dati 2006). Controlla 14 centri in Lazio, Toscana, Veneto, Puglia, Calabria e Sicilia. L’ospedale più grande del gruppo è l’Istituto chirurgico ortopedico traumatologico di Latina, con 449 posti letto. Il gruppo Giomi fu fondato nel 1949 da Franco Faggiana, chirurgo e docente alla Sapienza di Roma, ed è gestito da Miraglia fin dal 1973. La famiglia Miraglia è anche socia di Giuseppe Ciarrapico nella holding romana Eurosanità, della quale deteneva una quota anche Carlo Caracciolo, il fondatore dell’Espresso e di Repubblica scomparso a dicembre. Nel 2007 la Giomi ha fatturato 91 milioni di euro.
Carlo De Benedetti, Holding sanità e servizi. La Cir del finanziere torinese detiene il 67% di Hss, nata nel 2002 con sede a Milano e partecipata tra gli altri da Morgan Stanley. Dispone di 4.628 posti letto, più 430 in fase di realizzazione, concentrati prevalentemente in Lombardia, Piemonte e Liguria. Tre quarti del totale si trovano in residenze per anziani -suo il marchio “Anni azzurri”- e il resto prevalentemente in istituti per la riabilitazione, anche psichiatrica. Presieduta da Alberto Piaser, direttore generale della Cir, nel 2007 la Hss ha fatturato 183 milioni di euro, 83 in più rispetto all’anno precedente, anche grazie a nuove acquisizioni.
Maria Laura Garofalo, Raffaele Garofalo & C., Sapa. Maria Laura Garofalo, avvocato, presiede un gruppo da oltre mille posti letto, più di 700 dei quali accreditati al sistema sanitario nazionale (dati 2006).
È la figlia del fondatore, il chirurgo Raffaele Garofalo, specializzato in cardiochirurgia. Una famiglia votata alla medicina, con i due fratelli di Raffaele, Antonio e Mario, rispettivamente ginecologo e urologo. Attivo nel settore delle cliniche fin dagli anni Cinquanta, oggi il gruppo è presente in Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, e si dedica anche al settore alberghiero di lusso. Tra le strutture più importanti, l’hospice per lungodegenti e malati terminali Sant’Antonio e l’European Hospital, specializzato in cardiochirurgia, entrambi a Roma. Fa capo al gruppo anche Video 1-Telesalute, storica emittente televisiva dedicata alla medicina, che trasmette in Lazio e Toscana. Nel 2007 Sapa ha fatturato circa 350 milioni di euro.
Giampaolo Angelucci, Tosinvest Italia. Diplomato in scienze umanistiche a New York, 36 anni, Giampaolo Angelucci è il figlio di Antonio, ex portantino del San Camillo di Roma ed ex sindacalista che ha fondato un impero imprenditoriale incentrato sulla sanità, con oltre tremila posti letto in 26 strutture tra Lazio, Abruzzo e Puglia. Oggi Antonio è deputato del Partito della Libertà, Giampaolo guida il gruppo di famiglia anche se ha lasciato tutte le cariche dopo essere finito sotto inchiesta e per qualche tempo agli arresti domiciliari. La Procura di Bari lo accusa di aver versato 500mila euro al movimento politico dell’ex presidente della Puglia Raffaele Fitto, ex pupillo di Silvio Berlusconi, in cambio di un appalto da 198 milioni di euro per la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite. Angelucci ha ammesso il versamento del denaro ma ha negato l’intento di corrompere Fitto (l’udienza preliminare è fissata il 12 gennaio). La famiglia romana è stata al coinvolta in diversi casi giudiziari, ultimo dei quali la presunta tangentopoli sanitaria abruzzese che ha portato in carcere l’ex governatore Ottaviano Del Turco. L’accusatore di quest’ultimo, l’imprenditore della sanità locale Vincenzo Angelini, cita il San Raffaele di Sulmona come beneficiario di favori in fatto di posti letto accreditati. San Raffaele è un marchio rimasto alla Tosinvest in seguito a un altro affare controverso, quello del San Raffaele di Roma, comprato da don Verzé e subito rivenduto alla Regione Lazio con un guadagno di decine di miliardi di lire. La Tosinvest, inoltre, è azionista di Unicredit e pesa nell’editoria. Controlla il quotidiano Libero, diretto da Vittorio Feltri, e il Riformista di Antonio Polito. Nel 2008 si è offerto di comprare anche l’Unità, di cui in passato deteneva una quota azionaria, ma la redazione si è opposta, aprendo la strada all’arrivo di Renato Soru. Il gruppo Tosinvest, controllato dalla famiglia attraverso una “cassaforte” domiciliata in Lussemburgo, fattura circa 500 milioni di euro, circa 300 dei quali arrivano dal settore sanitario.
Ettore Sansavini, Gruppo Villa Maria spa. Imprenditore con la vocazione della salute, 64 anni, Ettore Sansavini ha diretto la sua prima clinica nel 1973 e oggi guida il Gruppo Villa Maria, con sede a Lugo in provincia di Ravenna. Gvm conta circa 1.700 posti letto in nove regioni italiane (Liguria, Piemonte, Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna, Lazio, Puglia, Sicilia) e all’estero, in Francia, Albania e Polonia. La vocazione iniziale era la cardiochirurgia, ma Sansavini è anche proprietario e presidente delle Terme di Castrocaro. Il Gruppo Villa Maria dichiara di assistere ogni anno oltre 350mila pazienti per un totale di circa 70mila ricoveri e oltre 2 milioni e 200mila prestazioni diagnostiche e ambulatoriali.
Il fatturato 2006 è di 350 milioni di euro.
Gianfelice Rocca, Humanitas Mirasole spa. Rocca, 60 anni, è presidente dello storico gruppo Techint, fondato dal padre Agostino, specializzato in siderurgia ed engineering, molto presente in America Latina. Ricopre numerose cariche nel “salotto buono” del capitalismo italiano: è, tra l’altro, consigliere di amministrazione di Rcs e vicepresidente di Confindustria. La Techint si è buttata nel business sanitario a metà degli anni Novanta, realizzando l’Istituto clinico Humanitas di Rozzano, nell’hinterland milanese, dove a sede la società. L’Humanitas, un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, è la struttura di punta di un gruppo che ha il cuore del business nel sistema sanitario lombardo, ma è presente anche in Piemonte e in Sicilia, per un totale di circa mille posti letto. Nel 2007 ha dichiarato 26.634 ricoveri, il 92% dei quali convenzionati con il Sistema sanitario nazionale, e 1,1 milioni di prestazioni ambulatoriali. Il fatturato è stato di 243 milioni di euro, di cui 166 derivati dall’accreditamento al Ssn.
Il sistema dell’accreditamento garantisce affari d’oro ai privati, ma è spesso al centro di polemiche e, come abbiamo visto, inchieste giudiziarie. “Ci spaventa che il ruolo di controllo sia assunto sempre più spesso dalla magistratura”, riprende Elena Cantù del Cergas. “Dovrebbero essere le Asl a esercitarlo, come può un giudice valutare, per esempio, la necessità o meno di un intervento chirurgico?”. Il sistema che parifica pubblico e privato è stato varato nel 1992 dall’allora ministro Francesco De Lorenzo, ma 16 anni dopo molte Asl non hanno messo in piedi un efficace sistema di controlli e addirittura ci sono “Regioni che non hanno ancora fissato gli standard che le strutture devono rispettare per essere accreditate. Sono inadempienti Campania, Lazio, Liguria, Molise, Puglia, Veneto e la Provincia di Trento”. La truffa ai danni delle casse pubbliche è possibile su due fronti: infliggendo al paziente cure o interventi non necessari, ed è l’accusa rivolta dai pm nel caso della Santa Rita di Milano; oppure soltanto sulla carta, registrando prestazioni più care di quelle erogate. Il bilancio finale di chi osserva la sanità da un tempio della libera impresa come la Bocconi è sorprendente: “Difendiamo a spada tratta il Sistema sanitario nazionale, che deve essere pubblico -scandisce la dottoressa Cantù-. Il privato può integrarlo, ma deve essere controllato e governato”.
La sigla che fa girare i soldi
La parola magica attorno alla quale gira la maggior parte dei soldi della sanità privata è “Drg”. Significa Diagnosis Related Group ed è un sistema che classifica ogni caso clinico in una determinata casella, in base a diagnosi, interventi subiti, cure prescritte, caratteristiche personali. Ogni paziente ricoverato in una struttura accreditata è incasellato in uno degli oltre 500 Drg previsti dal ministero della Sanità (in questo governo assorbito dal Welfare). La relativa tariffa da rimborsare viene fissata invece dalle singole Regioni, spesso con rilevanti disparità. L’arrivo del nuovo sistema, nel 1994, fu una rivoluzione copernicana: prima le strutture private erano incentivate ad allungare al massimo le degenze, visto che venivano pagate secondo i giorni di ricovero; ora l’obiettivo è di minimizzare le degenze e massimizzare i casi trattati. Ogni Regione fissa dei tetti annui: le prestazioni erogate oltre il limite non vengono rimborsate, e spesso sorgono contenziosi. I tetti non riguardano i pazienti provenienti da fuori Regione, un business importante per le strutture del Nord, in particolare della Lombardia.
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