Massimo Daviddi sociologo e poeta italo-svizzero, Coordinatore di "Cittadinanze"del Portale delle Associazioni ACP Network, intervista Giuseppe Marazzini per ascoltare quanto accaduto sulle tematiche dei Rom e della clandestinità. L’intervista, in due parti, è di fatto uno sguardo vivo sulle emergenze di persone sottoposte a condizioni di vita rischiose e disumane. In questo post la prima parte dell’intervista.

A suo avviso, da chi è stata sollecitata questa azione improvvisa e cruenta? “La risposta sta nelle azioni politiche precedentemente attuate dagli amministratori della nostra città che avevano chiesto al Presidente della Regione Lombardia di velocizzare l’iter del progetto di recupero dell’area, dicendo che non era possibile tenerla sotto controllo e insinuando il sospetto di infiltrazioni fondamentaliste. Insomma, gli operatori immobiliari hanno fretta, non vogliono avere intralci di nessun tipo, tantomeno quelli di carattere sociale. Poi, sappiamo che ogni pretesto è buono per soffiare sul fuoco della intolleranza dei cittadini che sono contro la presenza degli stranieri”. Dopo, un altro episodio critico. “Nel Gennaio dell’anno seguente, vengono salvati 46 immigrati, tunisini, macedoni e marocchini, in extremis, dai poliziotti del commissariato, insieme ai Vigili del fuoco di Busto Arsizio, Legnano e Milano. Tutto questo perché l’unico modo per difendersi dal freddo per chi vive alla ex Cantoni è quello di accendere fuochi di fortuna che, il piu’ delle volte, particolarmente la notte, rischiano di causare pericolosi incendi”. Quando viene abbattuto l’intero stabilimento? “Nel 2003. L’associazione - A Legnano nessuno è straniero- dà un breve comunicato, dicendo che la ex cantoni sarà abbattuta e quindi 150 persone non sapranno dove andare a dormire. Tutto inizia proprio dall’edificio dove erano morti i cinque macedoni nel marzo duemila, come a cancellare un’onta per la città. Un giornale locale, addirittura esce col titolo, abbattuta la vergogna della città clandestina. Del resto, l’Amministrazione comunale, dopo vaghe promesse non affronta con serietà e competenza il problema, la loro testa è girata verso “l’affaire Cantoni”, non certo verso gli ultimi della terra”. Cosa fanno allora, gli immigrati? “Un consistente gruppo di Nordafricani, si stabilisce nella ex tessitura Legnanese di via Bologna, ,dove inizia un percorso di autogestione che durerà fino a Settembre 2003. Gli immigrati, si presentano al quartiere distribuendo 200 lettere con le quali cercano di spiegare, forse per la prima volta in modo cosi’ vistoso la loro condizione di vita e la proposta per un patto di cittadinanza. Il tema dominante, era porre l’accento su come un paese civilizzato e di grande importanza storica culturale come l’Italia, potesse permettere condizioni di vita disumane; persone in mezzo alla spazzatura, al freddo, all’umidità. Ai rischi di malattia. Allo stesso tempo, mettevano in evidenza il loro proposito di non ricreare un’altra Cantoni, ma di collaborare con i cittadini tenendo pulito, rispettando l’ordine. Terminavano chiedendo un piccolo aiuto, quello di dare senso e dignità alla loro vita e una residenza, uscendo dalle situazioni temporanee”. Ci sono stati, altri movimenti? “Si’. All’ex Pensotti di via Firenze, convivono due comunità nelle ali della fabbrica e si guardano bene di relazionare fra loro. I Rom sono circa un centinaio, in gruppi famigliari, mentre i Nordafricani sono quasi tutti giovani. La baracca è riscaldata ed è stata riparata per evitare le infiltrazioni d’acqua, ma è pur sempre una sistemazione disastrata: l’aria circolante è pessima, impregnata dai fumi provenienti dalle decine di piccoli falo’ accesi per riscaldare e cucinare. Poi, avviene un episodio particolare. Quale? “Alla vigilia di Natale, all’ospedale di Legnano nasce Maria, figlia di genitori Rom; dopo pochi giorni mamma e bimba vengono dimessi dall’ospedale e tornano alla baraccopoli: li’, c’è la casa dei suoi genitori. Con la nascita di Maria si apre uno scenario nuovo nella conoscenza della comunità Rom. Inizia un percorso non solo fatto di mera solidarietà ma imperniato anche su modesti impegni reciproci. Nel frattempo, se pur timidamente, inizia una collaborazione operativa fra i volontari che agiscono sul campo e i Servizi sociali del Comune”.
Continueremo, con la seconda parte il racconto di
Giuseppe Marazzini. Ma ricordiamo i nomi della famiglia macedone morta
nell’incendio. I nomi contano; sono persone che vivono con noi, in mezzo a noi.
Aneta Demai, 28 anni, con le due figlie Dragana, 2 anni e Sandra, di 6. Aneta
era incinta di sei mesi. Il marito Zlatko Jovanovic, di origine serba, riesce a
salvarsi. Le altre due vittime: Lutvia Demail anni 26, sorella di Aneta e il
marito Abdush, di 33.
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