giovedì 27 gennaio 2011

Cantieri italiani sull'orrore di Auschwitz

Quaranta imprese firmarono nel ' 42 un contratto con la tedesca «Ig Farben» per posare binari e costruire docce. Quasi 1200 operai lavorarono vicino al Lager. Molti non tornarono Un caso significativo dopo le rivelazioni sulla collaborazione fra Germania nazista e Ibm

ARCHIVI Quaranta imprese firmarono nel ' 42 un contratto con la tedesca «Ig Farben» per posare binari e costruire docce Cantieri italiani sull' orrore di Auschwitz Quasi 1200 operai lavorarono vicino al Lager. Molti non tornarono Ci sono diversi tipi di orrore. Quello burocratico, ad esempio: la collaborazione tra la multinazionale americana Ibm e Hitler. È accaduto che alcuni rispettabili scienziati, inappuntabili esperti di computer, ponderati imprenditori, esperti conoscitori di mercati internazionali, abbiano accettato di gestire la contabilità dell' Olocausto. Certo, senza comprendere sino in fondo di essersi messi in affari con il diavolo... Ma esiste un altro genere di orrore: nasce dal cinismo e dall' indifferenza di chi accetta il male senza discuterlo, lo incontra ma non lo vede, si mette al suo servizio. Nel marzo del 1942, a Roma, i dirigenti tedeschi della «Ig Farben», una delle ditte maggiormente compromesse con il regime nazista, oltre che principale polo chimico del Terzo Reich, firmano un accordo con il Gruppo italiano, un consorzio di quaranta imprese del nostro Paese.

Sei di quelle ditte si assicurarono l' appalto per la costruzione di una fabbrica di gomma sintetica. Tutto sembra perfetto, segno confortante delle capacità imprenditoriali nazionali. Salvo un particolare, che al momento passa inosservato. In fondo al contratto, là dove si specifica il luogo in cui dovrà sorgere la fabbrica, è indicato un nome: Auschwitz. Possibile che qualcuno, sia pure allettato dal guadagno, abbia accettato di costruire una fabbrica sul fondo dell'inferno? Possibilissimo. Scorrere oggi l' elenco delle imprese che si consorziarono nel marzo del 1942 nel «Gruppo italiano» dà uno strano senso di «orrore da normalità»: ci sono tre ingegneri romani, Rodolfo Stoelcker, Ugo Martini e Romualdo Palermo; c' è il signor Giovanni Beotti, di Piacenza; c'è l'Impresa anonima edile stradale della capitale.

Nulla di veramente nuovo sotto il cielo, dal momento che fra il 1938 e il ' 43, in seguito a una serie di accordi stipulati fra Roma e Berlino, si calcola che non meno di 500 mila italiani si siano trasferiti per lavoro nel Reich. In genere, però, si trattava di braccianti, operai industriali, minatori, edili. Mai prima, come avvenne invece per Auschwitz, erano state coinvolte direttamente aziende italiane. Tutto risulta chiaro, appena sfogliamo l'opuscolo ufficiale della Federazione nazionale fascista costruttori edili, cui ha attinto a sua volta lo storico Brunello Mantelli. Professore di storia contemporanea all' università di Torino, allievo di Nicola Tranfaglia ed Enzo Collotti, Mantelli è autore di un libro fondamentale sull' argomento, Camerati del lavoro (pubblicato una decina d' anni fa dalla Nuova Italia).

Il contratto di subappalto, racconta, dopo alcuni colloqui preliminari a Berlino venne firmato a Roma il 14 marzo del '42; le parti contraenti erano per la Germania l' «Ig Farben» e un società chimica controllata dal maresciallo del Reich Hermann Göring, per l' Italia l' ingegner Aurelio Aureli, presidente del pool italiano che si era costituito appositamente per gestire l' affare. L' intesa riguardava vari lavori di costruzione, dalla pavimentazione delle strade alla posa dei binari, dalle gettate di calcestruzzo all' edificazione di solai, dalla preparazione degli intonaci all' installazione di grondaie e docce...

A dire il vero, l'accordo non parlava soltanto di Auschwitz, e riguardava 1196 operai, per la maggior parte qualificati. Durata del contratto rinnovabile per tutti: otto mesi. Compensi: dalle 228 alle 304 lire la settimana oltre alle indennità (parecchio di più delle normali paghe italiane). Unico problema, il moltiplicarsi delle fughe: molti si dileguavano e non venivano più ritrovati, oppure varcavano le Alpi e tornavano a casa. Perché scappavano? Naturalmente, per lo choc provocato da quell' «orrore della normalità». Ma non dovrebbe stupirci il contrario: che ci fosse qualcuno, cioè, capace di resistere? Chi non tornò a casa doveva avere nervi d' acciaio e cuore di pietra: un funzionario tedesco riferì infatti che «gli operai edili italiani erano alloggiati in una baraccopoli costruita su una piccola collina con vista panoramica su tutto il gigantesco quartiere e, dall' altra parte, sul campo di sterminio che, avvolto nella foschia e nel fumo della sua sinistra ciminiera, sembrava l' inferno stesso...».

E non si trattava soltanto di vaghe impressioni, ma di testimonianze dirette, dal momento che, a fianco degli operai regolari, venivano utilizzati anche gruppi di deportati prelevati dai Konzentrationslager, e con i quali sarebbe stato possibile, almeno in teoria, scambiare informazioni e opinioni. Che cosa furono, dunque, alcune fughe di fronte all' enormità della collaborazione ad Auschwitz? C' è da essere orgogliosi, o non piuttosto da scandalizzarsi, se i dirigenti della «Ig Farben» non diedero mai giudizi negativi sul rendimento degli operai italiani, e alla scadenza del contratto vennero immediatamente riaperte le trattative per prorogarlo? E che dire della «Buna», il grande cantiere aperto presso Monowitz, sottocampo di Auschwitz, descritto con accenti danteschi da Primo Levi in Se questo è un uomo? Quando rileggiamo quell' opera, forse dovremmo ricordarci che una parte del cantiere «grande come una città» era opera di quegli operai italiani, infastiditi dal fumo delle ciminiere ma, dopo tutto, solerti nell' attendere ai loro doveri.

E al centro della «Buna», la terribile «Torre del Carburo» descritta da Levi era stata costruita in parte dagli stessi italiani. Molti però scontarono la loro colpa morale: chi si trovava nel Reich dopo l' armistizio dell' 8 settembre del ' 43, e fu coinvolto nello sfacelo, alla fine non tornò a casa. Dario Fertilio

Fertilio Dario

Pagina 29 (18 marzo 2001) - Corriere della Sera



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