Così usava chiamarla ironicamente Bersani: dalla militanza
comunista ai Ds fino al Partito democratico. Il segretario del Pd delegò
Penati come suo emissario nel Nord Italia, prima di sceglierlo come braccio
destro a Roma. Per un decennio gli sono state affidate relazioni delicate con
ambienti imprenditoriali, soprattutto nel settore delle infrastrutture. È impensabile che Penati le abbia coltivate prescindendo da una visione
condivisa. Per questo gli atti resi pubblici dalla magistratura di Monza con
la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione, concussione e finanziamento
illecito dei partiti, esigono un chiarimento politico per il quale non serve
attendere gli esiti giudiziari della vicenda. Cavarsela ricordando che Penati
si è autosospeso dal partito, tanto più ora che Bersani avanza la propria
candidatura al governo del paese, apparirebbe come una reticenza
inspiegabile.
Dalla lettura degli atti istruttori emergono domande
squisitamente politiche: è opportuno che un dirigente di partito rivesta una
funzione reticolare di intermediazione con aziende private e cooperative,
finalizzata alla spartizione di appalti e licenze? E ancora: è accettabile che gliene derivino finanziamenti trasversali per
l’attività politica di partito e sua personale? Infine: che lezione intende
trarre il Partito Democratico sui rapporti fra politica e affari evidenziati
dalle inchieste sull’Autostrada Milano Serravalle e sulle aree industriali
dismesse di Sesto San Giovanni? Il ricorso a professionisti di fiducia e
l’inserimento nei cda di funzionari legati al partito, deve essere
considerata una prassi necessaria? La consuetudine palesata da Penati, ad esempio, con l’impresa della famiglia
Gavio, da sempre bene introdotta nei più diversi ambienti politici, merita
una riflessione. Nel settore delle infrastrutture finanziate con fondi
pubblici non è stata svolta un’azione regolatoria a tutela della libera
concorrenza e nell’interesse della collettività, ma piuttosto riscontriamo
l’opposto: il mercanteggiamento delle concessioni con reciproco vantaggio,
all’insegna del “ce n’è per tutti”.
Un clima equivoco in cui perfino un banchiere come Massimo Ponzellini
riteneva conveniente staccare assegni per la “Fondazione Metropoli” di
Penati. Non è purtroppo un caso se esplodono in parallelo gli scandali
lombardi del sistema dominante Formigoni e del sistema Penati, subalterno ma
a quanto pare non così marginale. Colui che il Pd aveva candidato a ribaltare
l’egemonia del centrodestra in crisi, ha rivelato una concezione accomodante
dell’opposizione, preoccupato di non restare tagliato fuori dalla spartizione
della torta. E difatti, prima ancora dell’intervento della magistratura, è
stata l’economia della regione nel suo insieme a non reggere più, dentro la
crisi, questi metodi consociativi e affaristici. Lo conferma anche il fatto
che gli accusatori di Penati siano imprenditori dal comportamento equivoco,
sodali fin che gli conveniva e divenuti ostili nella disgrazia. Tanto più
vero ciò appare nell’epicentro del sistema Penati: a Sesto San Giovanni. Dove
sono entrati in azione, per acquisire il controllo redditizio delle aree
industriali dismesse, protagonisti più vicini politicamente alla corrente di
Penati: le cooperative rosse e due imprenditori pugliesi considerati
dalemiani come Roberto De Santis e Enrico Intini.
Mi auguro che Bersani
rifugga dalla tentazione di liquidare gli interrogativi posti dall’inchiesta
sul “sistema Sesto” come un attacco dei poteri forti ai settori economici più
vicini al suo mondo di provenienza. Questa tentazione è riemersa di recente,
quando la Corte d’Appello di Milano ha assolto i manager dell’Unipol,
Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, insieme all’ex governatore Antonio
Fazio, dall’accusa di avere concertato nell’estate 2005 la scalata alla Bnl.
Si è parlato di un vero e proprio complotto contro la finanza rossa, ad opera
della stampa asservita ai salotti buoni del capitalismo italiano. Come se la
ristabilita verità giudiziaria, di cui è doveroso prendere atto, cancellasse
anche i rapporti intrattenuti con i Fiorani, Gnutti, Ricucci e furbetti del
quartierino vari, in una logica di schieramento cui non si sottrassero i
dirigenti Ds. Con la medesima apprensione di accesa tifoseria, del resto,
certi ambienti di sinistra stanno seguendo l’intricata acquisizione di ciò
che resta del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol. Quasi che una preordinata
ostilità politica tentasse di impedire alla finanza rossa di consolidarsi
sulla piazza di Milano. La vicenda Penati necessita di una considerazione
serena ma severa, rifuggendo tali pregiudizi. Anche perché le sue
ripercussioni nel Pd lombardo e milanese continuano a manifestarsi pesanti.
C’è un vuoto di leadership. Ci sono dirigenti che vedono ancora in lui il
proprio riferimento naturale. C’è disorientamento fra i militanti. Ne risente
l’efficacia dell’opposizione alla pericolante giunta Formigoni. Viene quindi
da chiedersi, di fronte al quadro gravissimo delle attività di Penati
delineato dalla pubblica accusa, se non avverta egli lo scrupolo di
dimettersi dal Consiglio Regionale, essendo palesemente compromesso il
rapporto di fiducia con un elettorato del quale non può essere più il
rappresentante. Ma intanto un discorso di verità da parte di Pier Luigi
Bersani aiuterebbe la sinistra del Nord a delineare la svolta necessaria nel
rapporto fra politica e affari. Tema ineludibile nella sfida per risanare
l’economia e governare il paese.
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