21.04.2015
Libertà e Giustizia
SOS – STERMINIO IN MARE
21 aprile 2015 - Barbara Spinelli
700 morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato
18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande
sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 3 ottobre 2013 a
Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali
in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista
lunga, la storia che sta alle spalle, le persone che la cifra indica e al tempo
stesso cancella. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori
politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto
Commissariato dell’Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei
naufraghi e sul non respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con
l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei
genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.
A questi attori politici bisogna rivolgersi oggi
con una preliminare e solenne domanda: smettete l’uso di parole altisonanti;
passate finalmente all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano
lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei
in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi non è più
possibile evocare imprevisti incidenti, e al posto di emergenza occorre
mettere la parola urgenza. Bisogna guardare in faccia la realtà, e
chiamarla col nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio
in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dai
Parlamentari europei e anche dalle Nazioni Unite e dall’Alto Commissariato
dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo
stesso piano delle guerre e delle carestie acute e prolungate. Il Mar
Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel
naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel
canale di Otranto; di altri 25 il mare non restituì mai i corpi. Lo sterminio
dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della
guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo
piuttosto di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei
fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.
Le azioni di massima urgenza che vanno intraprese
devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del
mancato soccorso nella prima parte del secolo scorso. Non sono all’altezza le
missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi
governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo
sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti
asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria
alla Palestina, dall’Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile
da anni.
Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:
- Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il
monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie
legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.
- Urge organizzare e finanziare interventi di
ricerca e salvataggio in mare, non solo lungo le coste europee ma anche in alto
mare, lungo le coste del Nord Africa, come faceva Mare Nostrum e come ha
l’ordine di non fare Triton. Questo, nella consapevolezza che la
stabilizzazione del caos libico non è ottenibile nel breve-medio periodo, e che
l’Egitto non è uno Stato democraticamente affidabile.
- Urge che gli Stati europei collaborino
lealmente a tale scopo (art. 4 del Trattato dell’Unione), smentendo quanto
dichiarato da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione di Bruxelles: “Al
momento attuale, la Commissione non ha né il denaro né l’appoggio politico per
predisporre un sistema di tutela delle frontiere, capace di impegnarsi in
operazioni di search and rescue”. Una frase che ha il cupo suono
dell’omissione di soccorso: un reato contro la persona, nei nostri ordinamenti
giuridici.
- Occorre che l’Onu stessa si mobiliti e decida
azioni d’urgenza, e che il Consiglio di sicurezza sia incaricato di far fronte
al dramma con una risoluzione. Se i crimini in mare somigliano a una guerra
prolungata o a carestie nate dal tracollo diffuso di strutture statali nei
paesi di transito o di origine, non vanno esclusi interventi dei caschi blu,
addestrati per il search and rescue. I soccorsi e gli aiuti agli
affamati e sfollati sono una prassi sperimentata delle Nazioni Unite. Una
prassi da applicare oggi al Mediterraneo.
- Ma questo è solo il primo passo. Occorre
rivedere al più presto i regolamenti di Dublino. Con una sentenza del 21
dicembre 2011, la Corte di giustizia europea a Lussemburgo pone come condizione
essenziale per procedere al trasferimento l’aver positivamente verificato se il
migrante corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e
degradanti. Si tratta di un vero e proprio obbligo di derogare ai criteri di
competenza enumerati nelle norme di Dublino.
- Al tempo stesso e con la medesima tempestività,
occorre tener conto che i paesi più esposti ai flussi migratori sono oggi
quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): gli stessi a
esser più colpiti, dopo la crisi economica iniziata nel 2007-2008, da politiche
di drastica riduzione delle spese pubbliche sociali. Spese che includono
l’assistenza e il salvataggio di migranti e richiedenti asilo. Il peso che
ingiustamente grava sulle loro spalle va immediatamente alleviato.
- Occorre pensare a un sistema di accoglienza in
Europa che garantisca il diritto fondamentale all’asilo, con prospettive di
reinsediamento nei Paesi disponibili, nel rispetto della volontà dei rifugiati.
Infine, la questione tempo. È dallo sterminio
presso Lampedusa che Governi e Parlamenti in Europa preconizzano un’organica
cooperazione con i paesi di origine e di transito dei fuggitivi, al fine di
“esternalizzare” le politiche di search and rescue e di asilo. Il
Commissario all’immigrazione Avramopoulos ha addirittura auspicato una
“cooperazione con le dittature”, dunque il ricorso ai respingimenti collettivi
che sono vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei Rifugiati del
1951 (art. 33) e dagli articoli 18 e 19 della Carta europea dei diritti
fondamentali.
Qui non è solo questione di diritti. È questione
anche di tempi, di efficacia. Non c’è tempo per costruire relazioni
diplomatiche – nei cosiddetti processi di Rabat e Khartoum – perché i
fuggitivi sono in mare qui e ora, e qui e ora vanno salvati: sia dalla morte,
sia dalle mafie che fanno soldi sulla loro pelle e riempiono un vuoto di
legalità che l’Unione deve colmare. Gli Stati europei e l’Onu si macchiano di
crimini e vivono inoltre nell’illusione. Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR,
parla chiaro: “Far morire le persone in mare non impedirà ai fuggitivi di
cercare sempre di nuovo la salvezza” dalle guerre, dalla fame, dall’odio che
oggi si scatena contro i cristiani o altre minoranze religiose, e in futuro
sempre più anche dai disastri climatici.
Il tempo delle parole, e dei negoziati
diplomatici con i paesi d’origine o di transito, è senza più alcun rapporto con
l’urgenza che si impone. È adesso, subito, che bisogna organizzare
un’operazione salvataggio dell’umanità in fuga verso l’Europa.
Libertà e
Giustizia – 21/04/2015 - www.libertaegiustizia.it
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